Perché i leader israeliani ammettono che se fossero palestinesi combatterebbero per la libertà

Resistenza di Palestinesi contro l'occupazione israeliana a Ramallah l'11 ottobre 2023. Foto: Jaafar Ashtiyeh/AFP)
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Joseph Massad

16 settembre 2024 MiddleEastEye

Nonostante il loro razzismo colonialista molte importanti figure sioniste hanno riconosciuto che se fossero palestinesi combatterebbero per la loro patria

In una recente intervista al quotidiano israeliano Maariv Ami Ayalon, ex capo dell’organizzazione israeliana di intelligence Shabak, ha dichiarato che se fosse palestinese, avrebbe combattuto “all’estremo” contro coloro che gli hanno rubato la terra.

“Parlando dei palestinesi, hanno perso la loro terra, e perciò quando la gente mi chiede ‘cosa faresti se fossi palestinese?’ Io dico che se qualcuno venisse e mi rubasse la terra, la terra di Israele, lo combatterei senza pormi limiti [sui mezzi da impiegare, n.d.t.]“.

I palestinesi, ha affermato Ayalon, “si vedono come un popolo. Una delle nostre tragedie è che li vediamo come individui, alcuni dei quali sono buoni, mentre altri sono cattivi”.

Nella raffica di accuse israeliane e filo-israeliane contro i palestinesi come barbari, antisemiti, autori di pogrom, terroristi, selvaggi e animali umani, fra altri epiteti razzisti con cui numerosi leader israeliani li hanno definiti a beneficio della propaganda, molti dei leader più importanti di Israele, come Ayalon, si sono sempre immedesimati nella lotta palestinese e ammettono pubblicamente che, se fossero palestinesi e non coloni ebrei, si sarebbero prontamente uniti alla lotta contro i sionisti e Israele.

Persino il famoso ministro della difesa israeliano Moshe Dayan capì la lotta dei palestinesi a Gaza e la loro resistenza al colonialismo israeliano. Nell’aprile del 1956, i combattenti della resistenza palestinese uccisero un agente di sicurezza a Nahal Oz, una colonia che nel 1953 era stata fondata a un km e mezzo dal confine di Gaza.

Qualche giorno prima l’ufficiale aveva picchiato diversi palestinesi perché li aveva sorpresi mentre tentavano di tornare nelle loro terre dopo che gli israeliani li avevano espulsi. Li aveva costretti a tornare a Gaza. Al suo funerale, Dayan ha ricordato ai presenti:

“Non diamo oggi la colpa agli assassini. Chi siamo noi per contestare il loro odio? Da otto anni stanno nei loro campi profughi a Gaza e, davanti ai loro occhi, trasformiamo in colonie di nostra proprietà la terra e i villaggi in cui loro e i loro antenati avevano vissuto… Siamo una generazione di coloni e senza l’elmetto d’acciaio e il cannone non possiamo piantare un albero e costruire una casa.”

Le recenti parole di Ayalon non sono una novità. A marzo in un’intervista alla rete televisiva americana ABC aveva dichiarato che se fosse palestinese “combatterebbe contro Israele” e “farebbe di tutto” per ottenere la libertà.

Ayalon non è il primo leader israeliano a comprendere perfettamente la lotta dei palestinesi per porre fine al colonialismo sionista e all’apartheid israeliano. In effetti fa parte di una lunga lista di leader sionisti e israeliani che, senza esitazione, hanno dichiarato di comprendere o addirittura di immedesimarsi nella lotta palestinese.

Nel 1923 Vladimir Jabotinsky, il fondatore del sionismo revisionista a cui poi successe Menachem Begin, commentò così la resistenza palestinese:

“Ogni popolo nativo, non importa che sia civilizzato o selvaggio, considera la propria terra come la propria patria nazionale, di cui sarà sempre il padrone assoluto. Non accetterà volontariamente non solo un nuovo padrone, ma nemmeno un nuovo partner. E così è per gli arabi. Quelli fra di noi che operano compromessi tentano di convincerci che gli arabi sono una sorta di sciocchi che possono essere imbrogliati… [e] che abbandoneranno il loro diritto di nascita alla Palestina per una crescita culturale ed economica. Respingo categoricamente questa valutazione degli arabi palestinesi. Culturalmente sono 500 anni indietro rispetto a noi, spiritualmente non hanno la nostra resistenza o la nostra forza di volontà, ma queste sono le sole differenze intrinseche… Guardano la Palestina con lo stesso amore istintivo e vera passione con cui ogni azteco guardava al suo Messico o ogni sioux guardava la prateria… questa fantasia infantile dei nostri “arabofili” deriva da una sorta di disprezzo per il popolo arabo… [che] questa razza [sia] una plebe pronta a farsi corrompere o a vendere la propria patria per una rete ferroviaria.”

Jabotinsky, tuttavia, non si immedesimava nei palestinesi (sebbene tentasse di equipararli agli ebrei europei, mutatis mutandis, sul piano dell’attaccamento alla loro patria e dell’uso della violenza per difendere il loro paese).

Aveva capito bene che i palestinesi “non sono una plebe, ma una nazione”. Da fascista che ammirava Mussolini, Jabotinsky non permise al suo razzismo contro i palestinesi di renderlo cieco alle reali condizioni sul terreno, ed è proprio per questo che cercò di combattere i palestinesi e di sottoporli al dominio sionista e all’espulsione.

Altri sionisti si sarebbero invece piuttosto immedesimati nei palestinesi.

David Ben-Gurion, il primo primo ministro di Israele, comprese appieno la lotta palestinese, nonostante fosse impegnato a reprimerla. Dichiarò:

“Se fossi un leader arabo non farei mai accordi con Israele. È naturale, gli abbiamo portato via il loro paese. Certo, Dio ce l’ha promesso, ma cosa importa a loro? Il nostro Dio non è il loro. Noi veniamo da Israele, è vero, ma questo è successo duemila anni fa, e cosa importa a loro? C’è stato l’antisemitismo, i nazisti, Hitler, Auschwitz, ma era colpa loro? Loro vedono solo una cosa: siamo venuti e abbiamo rubato il loro paese. Perché dovrebbero accettarlo?”

Non è un’aberrazione

L’immedesimarsi dei leader sionisti nei palestinesi continuò nei decenni successivi e fu forse espressa con maggior forza dall’ex primo ministro israeliano Ehud Barak. Barak era stato membro di un commando di squadroni della morte israeliani inviato a Beirut nel 1973 per uccidere tre rivoluzionari palestinesi.

L’immedesimazione di Barak nei palestinesi è senza riserve e in un’intervista al quotidiano israeliano Haaretz affermò: “Se fossi palestinese, anche io mi unirei a un gruppo terroristico”.

Leah Rabin, la vedova del defunto Yitzhak Rabin che aveva combattuto nella conquista sionista della Palestina nel 1948, nel dichiarare di immedesimarsi nei palestinesi fu più sottile di tutti gli altri leader sionisti. Nel 1997 affermò che “Noi [gli ebrei] abbiamo usato il terrorismo per stabilire il nostro Stato. Perché dovremmo aspettarci che i palestinesi siano diversi?” I palestinesi, a quanto pare, sono uguali agli ebrei e non sono affatto diversi da loro”.

È molto importante notare che in queste dichiarazioni nessuno di quei leader israeliani pensava che la ragione per cui i palestinesi resistono a Israele sia perché Israele è ebreo. Al contrario, tutti hanno affermato che la ragione per cui i palestinesi combattono Israele e gli ebrei israeliani è perché gli israeliani hanno rubato e continuano a rubare la loro terra e il loro paese, li opprimono e li privano della loro indipendenza e libertà. L’attuale spaventosa propaganda del governo israeliano secondo cui l’operazione palestinese del 7 ottobre ha preso di mira gli ebrei israeliani in quanto ebrei e non come colonizzatori ed è stata perciò l’attacco “più letale” contro gli ebrei dopo l’Olocausto, come i leader occidentali e in generale i loro obbedienti media non si sono stancati di ripeterci, mira decisamente a nascondere che la ragione per cui i palestinesi resistono è la colonizzazione ebraica israeliana della loro terra.

Queste bugie mirano a scagionare gli ebrei israeliani dal crimine di aver rubato la terra ai palestinesi e sono in contrasto con l’ostinazione dei palestinesi e di tutti quei leader sionisti e israeliani che hanno sempre compreso la lotta palestinese, vale a dire che la resistenza palestinese prende di mira gli ebrei israeliani perché sono colonizzatori e non perché siano ebrei. La comprensione e l’immedesimarsi nella lotta palestinese da parte degli stessi leader israeliani che hanno oppresso i palestinesi non sono semplicemente figure retoriche o lapsus. Parlano semplicemente di una chiara comprensione della natura della violenza e dell’oppressione che Israele ha inflitto e continua a infliggere al popolo palestinese.

Contrariamente alla propaganda ufficiale israeliana e alla sua reiterazione da parte dei leader politici occidentali e dei principali media, i palestinesi che hanno resistito alla colonizzazione sionista sin dai primi anni ‘80 del XIX secolo non sono affatto un’aberrazione. In effetti, i palestinesi, secondo i leader israeliani citati sopra, sono molto simili e non così diversi dagli ebrei sionisti colonizzatori che li opprimono. L’unica differenza, a quanto pare, è che i palestinesi non sono ebrei e, pertanto, non si può estendere a loro il rispetto e l’ammirazione occidentali che qualsiasi popolo che abbia resistito al colonialismo per un secolo e mezzo merita. Mentre i leader israeliani possono ancora immedesimarsi nei palestinesi nonostante il loro razzismo coloniale, il profondo razzismo occidentale contro i palestinesi è il motivo per cui nessun leader politico occidentale ha mai considerato cosa farebbe se fosse palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Joseph Massad è professore di politica araba moderna e storia intellettuale alla Columbia University di New York. È autore di molti libri e articoli accademici e giornalistici. Fra i suoi libri Colonial Effects: The Making of National Identity in Jordan [Effetti del colonialismo: il formarsi dell’identità nazionale in Giordania]; Desiring Arabs [Desideri arabi]; The Persistence of the Palestinian Question: Essays on Zionism and the Palestinians [La persistenza della questione palestinese: saggi sul sionismo e i palestinesi] e, più di recente, Islam in Liberalism [L’Islam nel liberalismo]. I suoi libri e articoli sono stati tradotti in una dozzina di lingue.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)