Come la Cina sta silenziosamente aiutando l’impresa delle colonie israeliane

La colonia di Ramat Shlomo nel febbraio 2025 a Gerusalemme Est- Foto: Ahmad Gharabli/AFP
image_pdfimage_print

Razan Shawamreh

13 maggio 2025 Middle East Eye

Lontano dalla retorica di Pechino sulla difesa dei palestinesi, le aziende cinesi stanno contribuendo a sostenere le colonie illegali

“Non hai bisogno, Razan, di andare in Cina: vieni a Huwara, la Cina è qui”. Sebbene dette scherzosamente dal mio amico Ahmad, che ha chiesto di non rivelare il suo nome completo per motivi di sicurezza, queste parole racchiudono una dura verità.

Huwara è un piccolo villaggio palestinese vicino a Nablus, circondato da alcune delle colonie sioniste più violente e ideologicamente estremiste del paese, tra cui Yitzhar.

Quando gli ho chiesto cosa intendesse mi ha risposto: “I lavoratori cinesi vivono e lavorano nelle vicine colonie. Li vedo regolarmente per le strade del villaggio, a fare la spesa nei locali negozi palestinesi “.

Quella semplice osservazione di un paio di mesi fa mi ha spinto a indagare ulteriormente. Ho parlato con i palestinesi in tutta la Cisgiordania occupata e ho raccolto le loro testimonianze. Ali, che vive a Ramallah vicino alla colonia di Beit El, mi ha detto: “Ho visto decine di operai cinesi costruire case e infrastrutture a Beit El”.

Saeed, di Hebron, ha ricordato che “durante la pandemia di Covid-19, i coloni hanno persino messo in quarantena i lavoratori cinesi, separandoli dagli altri”.

Queste testimonianze rivelano una scomoda verità: la manodopera cinese sta contribuendo attivamente e visibilmente alla costruzione di colonie israeliane sui territori palestinesi occupati.

Ironicamente, questa realtà è in aperta contraddizione con la politica dichiarata dalla Cina stessa, che un decennio fa ha proibito a imprese edili cinesi di lavorare nelle colonie israeliane.

Nel 2015 la Cina ha firmato un accordo bilaterale di lavoro con Israele con una clausola che impediva ai lavoratori cinesi di essere impiegati nella Cisgiordania occupata. In particolare, questa condizione era motivata da preoccupazioni per la sicurezza piuttosto che da una posizione di principio contro l’illegalità o l’immoralità della costruzione di colonie. Tuttavia, nel 2016 queste preoccupazioni per la sicurezza sembravano essersi attenuate con l’acquisizione da parte della Cina di Ahava, un’azienda con sede nella colonia di Mitzpe Shalem.

Un anno dopo entrambi i Paesi hanno firmato un altro accordo di lavoro per far entrare in Israele alle stesse condizioni 6000 lavoratori edili cinesi. Il portavoce del Ministero degli Esteri israeliano, Emmanuel Nahshon, ha confermato che l’accordo è stato steso “in base alla preoccupazione per la sicurezza dei lavoratori”. Tuttavia i funzionari cinesi hanno risposto affermando che “il vero problema non era la sicurezza, ma l’opposizione della Cina alle costruzioni nelle colonie”. Eppure, le mie interviste con gli abitanti – da Nablus a Ramallah a Hebron – hanno chiarito che i lavoratori cinesi sono presenti e coinvolti nell’espansione delle colonie. Ciò solleva seri dubbi sulla sincerità della presunta opposizione della Cina alle attività di colonizzazione israeliana.

“Pionieri contemporanei”

Nel contesto del genocidio in corso a Gaza, i funzionari cinesi hanno pubblicamente espresso preoccupazione per l’aumento della violenza dei coloni nella Cisgiordania occupata. Il portavoce del Ministero degli Esteri Lin Jian ha dichiarato a settembre dello scorso anno che Israele deve “fermare le attività di insediamento coloniale illegale in Cisgiordania”.

Ma mentre Pechino parla di moderazione le aziende cinesi agiscono a sostegno dell’occupazione e del progetto di insediamento coloniale in Palestina.

Uno degli esempi più eclatanti è Adama Agricultural Solutions, un’ex azienda israeliana ora interamente di proprietà della società statale cinese China National Chemical Corporation (ChemChina). Nel contesto della guerra di Gaza Adama ha mobilitato i suoi lavoratori “per sostenere gli agricoltori che hanno sofferto per la carenza di manodopera… [compresi] gli agricoltori del sud, gli abitanti delle zone circostanti la Striscia di Gaza e quelli delle colonie del nord”, secondo un articolo del Jerusalem Post.

Citato nello stesso rapporto, un rappresentante di Adama ha affermato: “Gli agricoltori del Paese, e in particolare quelli delle colonie intorno a Gaza, sono i pionieri contemporanei e il loro continuo lavoro è necessario per garantire la sicurezza del Paese. Oggi tornano a coltivare le loro terre con enormi sofferenze e la mancanza di braccia. Noi di Adama abbiamo il diritto di aiutarli nei momenti di normale lavoro e di sostenerli anche nei momenti di crisi”.

Nel gennaio 2024 Adama si è spinta oltre, istituendo un fondo di borse di studio di circa un milione di shekel (275.000 dollari) per sostenere lauree in agricoltura per i residenti dell’area di Gaza e delle colonie settentrionali.

Adama vanta una lunga storia di collaborazione con le istituzioni dei coloni. I suoi prodotti sono stati utilizzati in sperimentazioni agricole condotte nelle colonie israeliane della Valle del Giordano e, cosa ancora più inquietante, uno dei suoi erbicidi è stato utilizzato da un collaboratore esterno dell’esercito israeliano per irrorazioni aeree che hanno distrutto la vegetazione lungo il confine di Gaza.

Mentre la Cina si presenta nel conflitto come un attore neutrale o solidale, la sua proprietà di Adama la collega direttamente alla distruzione militarizzata dei mezzi di sussistenza palestinesi.

Collaborare al consolidamento delle colonie

Non si tratta di un caso isolato. Negli ultimi anni diverse aziende cinesi, statali e private, hanno investito direttamente o indirettamente nelle colonie israeliane o in aziende che vi operano.

Prendiamo il caso di Tnuva, un importante produttore alimentare israeliano che opera in colonie illegali. Nonostante le richieste internazionali di boicottaggio dell’azienda, nel 2014 il conglomerato statale cinese Bright Food ha acquisito una partecipazione del 56% in Tnuva. Nel 2021 Tnuva si è aggiudicata una gara d’appalto per la gestione di 22 linee di trasporto pubblico che servono 16 colonie a Mateh Yehuda, tutte costruite su terreni occupati a Gerusalemme Est e in Cisgiordania. Non si tratta di semplici autobus; ma di infrastrutture a supporto del radicamento coloniale, che rendono la vita dei coloni più facile e duratura.

Un altro esempio è l’acquisizione, nel 2016, da parte del gruppo cinese Fosun, di Ahava, un marchio di cosmetici la cui produzione ha sede nell’insediamento coloniale di Mitzpe Shalem. Ahava, bersaglio di una campagna di boicottaggio globale, era stata precedentemente identificata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite come parte dell’attività di colonie illegali.

Nel frattempo, i diplomatici cinesi continuano a chiedere a Israele di fermare l’espansione delle colonie. L’ex ambasciatore Zhang Jun alla fine del 2023 ha dichiarato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: “Esortiamo Israele a frenare l’intensificarsi della violenza dei coloni in Cisgiordania, in modo da evitare la creazione di un nuovo focolaio e la diffusione del conflitto”. Il suo successore, Fu Cong, ha fatto eco a questo messaggio, esortando Israele a “fermare le sue attività di insediamento colonìale illegale in Cisgiordania”.

Ma che dire del coinvolgimento della Cina proprio in queste attività? L’agenzia delle Nazioni Unite per i Diritti Umani riferisce regolarmente sulle aziende coinvolte in attività legate alle colonie, eppure le aziende cinesi continuano tali collaborazioni.

Secondo numerose risoluzioni ONU, le colonie israeliane costituiscono una flagrante violazione del diritto internazionale. Le azioni della Cina contraddicono direttamente i principi giuridici che afferma di sostenere.

Mentre Pechino si oppone alle attività di insediamento coloniale, i suoi legami economici con Israele rafforzano le fondamenta del colonialismo sionista, a scapito dei diritti dei palestinesi. Ciò che è ancora più inquietante è come questi investimenti siano rimasti del tutto inosservati nel loro silenzioso sostegno all’apartheid, mentre Pechino parla di uno Stato palestinese indipendente.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Razan Shawamreh è una ricercatrice palestinese i cui ambiti di ricerca includono la politica estera cinese in Medio Oriente e la Grande Strategia della Cina a livello internazionale. È dottoranda in Relazioni Internazionali presso l’Università del Mediterraneo Orientale (EMU) a Cipro del Nord.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)