Talal Ali Khan
13 maggio 2025 – Aljazeera
Ho trascorso a Gaza 22 giorni. Ho visto tanta morte e distruzione, ma anche un coraggio, una compassione e una dedizione incredibili. Non dobbiamo abbandonare i nostri colleghi che sono lì.
Avevo seguito attentamente per nove mesi la guerra genocida a Gaza, quando mi si è presentata l’opportunità di fare volontariato nel contesto di una missione medica organizzata dall’ONU, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dalla Palestinian American Medical Association.
Essendo specializzato in nefrologia, una branca medica che si occupa di pazienti con malattie renali, ho capito che c’era un disperato bisogno di cure specialistiche a causa del collasso del sistema sanitario e dell’elevato numero di medici specializzati uccisi a Gaza.
Sentivo anche che fosse mio dovere, come musulmano, aiutare la popolazione di Gaza. L’Islam ci insegna che chiunque salvi una vita è come se avesse salvato l’umanità intera; prendersi cura degli altri è un atto religioso e opporsi all’ingiustizia è un obbligo morale.
Credo che i miei diplomi di laurea non siano semplicemente destinati a rimanere appesi alle pareti di uno studio climatizzato o permettermi di stare alla guida di una magnifica auto o vivere in un quartiere di benestanti. Sono una testimonianza del fatto che ho giurato di dedicare la mia competenza al servizio dell’umanità, di mantenere il massimo rispetto per la vita umana e di offrire le mie conoscenze mediche e la mia compassione a chi ne ha bisogno.
Così il 16 luglio sono partito per Gaza con alcuni colleghi.
Siamo entrati nella Striscia attraverso il valico di Karem Abu Salem. Siamo passati dalla prosperità, comfort e ricchezza della parte israeliana alla terribile distruzione, devastazione e miseria della parte palestinese. Abbiamo praticamente visto cos’è l’apartheid.
Durante il nostro breve viaggio attraverso la Striscia di Gaza meridionale per raggiungere la nostra destinazione a Khan Younis abbiamo visto molti edifici bombardati, danneggiati o distrutti. Case, scuole, negozi, ospedali, moschee… di tutto.
La quantità di macerie era raccapricciante. Ancora oggi non riesco a dimenticare gli scenari di distruzione che ho visto a Gaza.
Siamo stati ospitati all’ospedale Al-Nasser perché era troppo pericoloso stare in qualsiasi altro posto. Siamo stati accolti con tanta premura che mi sono sentito in imbarazzo. Eravamo visti come dei salvatori.
Ho curato pazienti con problemi renali, lavorato come medico di medicina generale e talvolta ho prestato assistenza al pronto soccorso durante eventi con moltissime vittime.
La dialisi richiede acqua pulita, materiali sterili, alimentazione elettrica affidabile, farmaci e attrezzature che devono essere sottoposte a manutenzione e sostituzione – niente di tutto questo era garantito a causa del blocco israeliano. Ogni seduta di dialisi era una sfida. Ogni ritardo aumentava il rischio di morte dei miei pazienti. Tanti sono morti – una realtà che ho faticato ad accettare, sapendo che in circostanze normali molti di loro avrebbero potuto essere salvati e vivere una vita normale.
Ricordo il volto sorridente di uno dei miei pazienti, Waleed, un giovane che soffriva di insufficienza renale causata da ipertensione precoce, una condizione che con l’accesso a cure adeguate avrebbe potuto essere gestita in modo appropriato.
La dialisi era l’ancora di salvezza per Waleed, ma non poteva sottoporsi a un numero adeguato di sedute a causa del blocco israeliano che causava una grave carenza di forniture mediche. La malnutrizione e il peggioramento delle condizioni di vita non hanno fatto che accelerare il suo declino.
Ricordo quanto era affannosa la sua respirazione, il suo corpo sovraccarico di liquidi e la sua pressione sanguigna pericolosamente alta. Eppure, ogni volta che lo vedevo Waleed mi accoglieva con un caldo sorriso, il suo spirito in qualche modo integro, sua madre sempre al suo fianco. Pochi mesi dopo la mia partenza da Gaza Waleed è morto.
Un altro mio paziente era Hussein, un uomo gentile, di buon cuore e molto rispettato. I suoi figli si prendevano cura di lui con amore e dignità.
Soffriva di grave ipokaliemia e acidosi: i livelli di potassio nel suo corpo erano pericolosamente bassi e l’acidità saliva fino a livelli tossici. Per affrontare la propria condizione aveva bisogno di farmaci di base: integratori di potassio e compresse di bicarbonato di sodio.
Si trattava di farmaci semplici, economici e salvavita, eppure il blocco israeliano non ne permetteva l’ingresso. Non riuscendo a trovare queste compresse Hussein è stato ricoverato più volte per un’integrazione di potassio per via endovenosa.
Nonostante l’immensa sofferenza Hussein restava gentile, coraggioso e pieno di fede. Quando parlava ripeteva sempre la frase Alhamdulillah (la lode a Dio). Ho saputo che è morto qualche settimana fa.
Waleed e Hussein dovrebbero essere qui: lieti, sorridenti, felici con le loro famiglie. Invece, sono diventati vittime dell’assedio e del silenzio. Queste sono due delle tante tragiche storie che conosco e a cui ho assistito. Tante vite meravigliose che avrebbero potuto essere salvate sono andate perdute.
Nonostante questa triste realtà i miei colleghi a Gaza continuano a fare tutto il possibile per i loro pazienti.
Questi sono medici oltraggiati in tutti i modi possibili. Non solo combattono le difficoltà quotidiane della vita come tutti gli altri palestinesi di Gaza, ma assistono anche agli orrori quotidiani di bambini decapitati, arti amputati, esseri umani totalmente ustionati e, a volte, dei corpi senza vita dei loro cari.
Immaginate di lavorare senza anestesia, con pochi antidolorifici e pochissimi antibiotici. Immaginate chirurghi che lavano con semplice acqua bambini sottoposti ad amputazioni senza sedazione e che cambiano senza antidolorifici le medicazioni di pazienti con ustioni diffuse in tutto il corpo.
Eppure questi eroi della sanità continuano ad andare avanti.
Uno degli infermieri con cui ho lavorato, Arafat, mi ha profondamente colpito. Viveva con diversi membri della famiglia in un rifugio di fortuna che non offriva alcuna protezione dagli elementi: il freddo invernale, il caldo torrido o la pioggia battente.
Pativa la fame, come tutti gli altri palestinesi di Gaza, e ha perso 15 kg in nove mesi. Ogni giorno percorreva dai 2 ai 3 km a piedi per andare al lavoro con sandali consumati, rischiando di essere bombardato dai droni o colpito dagli spari israeliani per strada.
Eppure il sorriso non abbandonava mai il suo volto. Si prendeva cura di oltre 280 pazienti in dialisi, trattandoli con cura, ascoltando attentamente le loro famiglie in ansia e incoraggiando i colleghi con un leggero umorismo.
Mi sentivo così piccolo accanto a eroi come Arafat. La sua resilienza e la sua perseveranza, così come quella dei suoi colleghi, erano incredibili.
Mentre ero a Gaza ho avuto l’opportunità di visitare l’ospedale Al-Shifa con una delegazione delle Nazioni Unite. Quello che un tempo era il più grande e vitale centro medico di Gaza era ridotto in rovina. L’ospedale, un tempo simbolo di speranza e guarigione, era diventato simbolo di morte e distruzione, della volontà di demolire l’assistenza sanitaria. È stato straziante vederne i resti carbonizzati e bombardati.
Sono rimasto a Gaza per 22 giorni. È stato un vero onore far visita e aiutare la popolazione resiliente di Gaza ricavandone lezioni di vita. Il loro instancabile coraggio e la loro determinazione mi accompagneranno fino alla morte.
Nonostante abbia assistito a ciò che non avrei mai potuto immaginare, non sentivo il bisogno di andarmene. Volevo restare. Tornato negli Stati Uniti ho provato un profondo senso di colpa per aver lasciato indietro i miei colleghi e i miei pazienti, per non essere rimasto, per non aver fatto abbastanza.
Nel provare questo dolore costante non riesco a comprendere come un crescente numero di persone si abitui ai resoconti quotidiani delle morti palestinesi e alle immagini di corpi straziati e bambini affamati.
Come esseri umani e come operatori sanitari non possiamo tacere su Gaza. Non possiamo rimanere in silenzio e passivi. Dobbiamo denunciare e agire contro la devastazione dell’assistenza sanitaria e gli attacchi ai nostri colleghi nella Striscia.
Sono già sempre meno gli operatori autorizzati a entrare a Gaza per missioni sanitarie. L’attuale blocco ha impedito l’arrivo di qualsiasi fornitura medica.
Come operatori sanitari dobbiamo mobilitarci per chiedere l’immediata cessazione dell’assedio e il libero accesso alle missioni mediche. Non dobbiamo smettere di offrirci come volontari per aiutare le équipe mediche in difficoltà a Gaza. Questi atti di denuncia e volontariato danno ai nostri colleghi a Gaza la speranza e il conforto di non essere stati abbandonati.
Non permettiamo che Gaza sia solo un simbolo di distruzione, che sia invece l’esempio di uno spirito incrollabile.
Alzatevi, parlate e agite: fate in modo che la storia ricordi non solo la tragedia, ma anche il trionfo della compassione umana.
Sosteniamo la dignità umana.
Diciamo a Gaza: non siete soli!
L’umanità è dalla vostra parte!
Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.
Talal Ali Khan
Talal Ali Khan è un medico statunitense, specialista in nefrologia.
(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)