Il 40% degli israeliani dice di aver pensato di lasciare il Paese. Ecco cosa li trattiene

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Noa Limone

12 maggio 2025 – Haaretz

Barak dice che preferisce “combattere i fascisti”, Riky vuole solo una vita normale e Meital conosce i pericoli della solitudine. Gli israeliani raccontano cosa li trattiene in Israele – per ora.

Lo scorso anno quasi 60.000 israeliani hanno lasciato il Paese senza farvi ritorno – più del doppio rispetto al 2023. Secondo l’ufficio statistico l’81% sono stati giovani e famiglie, spesso tra i 25 e i 44 anni. Inoltre un sondaggio della società Ci Marketing ha rivelato che circa il 40% degli israeliani rimasti sta valutando di andarsene.

Le ragioni di questi numeri potrebbero sembrare ovvie: la guerra, il tentativo del governo di indebolire la magistratura, il costo della vita in aumento. Altrove, il futuro dei figli potrebbe essere migliore.

Ma quali sono invece le ragioni per restare? Quattro israeliani hanno raccontato ad Haaretz perché stanno pensando di andarsene e perché, almeno per ora, rimangono.

Riky Cohen. Foto: Moti Milrod

Riky Cohen, 56 anni, è una scrittrice, poetessa e redattrice che vive a Tel Aviv e da un decennio pensa di emigrare. “Ogni volta che sento che qualcuno se ne va, ho una crisi isterica”, racconta.

Cohen ha una relazione ed è madre di due figli: un giovane di 23 anni militare di carriera e una figlia di 18 anni che sta svolgendo l’anno di servizio nazionale [sorta di servizio civile, ndt.] prima di entrare nell’esercito. Per alcuni anni il suo partner ha completamente rifiutato l’idea di andarsene.

“Si era persino opposto alla mia idea di chiedere il passaporto portoghese, quando c’era ancora tempo. Adesso se ne pente”, dice Cohen.

La frequenza e l’intensità di questi pensieri sono gradualmente cresciute e da due anni “abbiamo discussioni accese sull’argomento”, racconta. Il suo compagno temeva che all’estero non avrebbero trovato lavoro, e i loro figli hanno radici qui. E non volevano andarsene senza di loro.

Cohen guarda all’estero perché è pessimista sul futuro di Israele in termini di insicurezza, instabilità politica ed economica. E sogna, con un misto di malinconia, una vita “normale”: “Senza la preoccupazione costante di ciò che accade in un Paese in via di disintegrazione, in una distopia”.

Manifestazione a Basilea l’11 maggio per l’esclusione di Israele dall’Eurovision. foto: AFP/STEFAN WERMUTH

Ma non è solo il suo compagno ad avere motivi per restare. «L’ebraico è la mia prima ancora nel mondo», dice Cohen, aggiungendo che «quando te ne vai, perdi la tua rete. Sarei felice di partire in gruppo».

L’antisemitismo non la spaventa: “Ne fanno un problema più grande di quanto sia in realtà”, dice. Per lei, è la vita qui a essere più terrificante; del resto, abita in una casa senza stanza blindata [camera in cui rifugiarsi in caso di attacchi o altre emergenze militari. Dal 1992 per legge tutte le nuove costruzioni in Israele devono averne una, ndt.]. “Durante gli allarmi temevo che un muro mi crollasse addosso e per mesi dopo il 7 ottobre ho avuto incubi riguardo a terroristi”.

Nel frattempo Cohen cerca di convincere i suoi figli a emigrare dopo il servizio militare. “Chiedo loro cosa deve succedere perché la vita qui diventi per loro insopportabile nella speranza che, se e quando ciò accadrà, sarà ancora possibile andarsene”, dice. “Penso che potremmo aver perso l’occasione”.

Teme che Israele diventi una dittatura “e in un modo o nell’altro quello che sta succedendo adesso attirerà su di noi qualcosa di simile all’annientamento”.

Come dice Cohen, “siamo al disastro. Mi sono chiesta molte volte cosa avrei fatto durante l’Olocausto: unirmi ai partigiani e combattere o tentare la fuga per salvarmi. Ora oscillo tra la domanda se lottare fino alla fine per provare a salvare questo posto – e a quale prezzo – o fuggire”.

Nonostante le molte ragioni per andarsene, Cohen conclude l’intervista citando un verso di “Città e paure” (2011) del poeta Eli Eliahu: “Una persona deve lasciare dietro di sé tracce di lotta”.

“Spero che combatteremo, nonostante tutto”, aggiunge.

Sentirsi indesiderati

Un’altra intervistata ha chiesto l’anonimato: la chiameremo Shira. Ha 41 anni e vive nel centro del Paese. Anche per lei i pensieri sull’emigrazione non sono una novità.

“Ci penso da sempre, ma da quando è iniziata la guerra questa idea si è fatta più forte e parlarne è diventato socialmente più accettabile”, racconta.

Shira, graphic designer e single, racconta che molti suoi amici se ne sono già andati. Per lei la ragione sta nella convinzione che Israele non abbia un futuro politico. “Finché insisteremo sull’essere uno Stato «ebraico e democratico», e finché ci sarà un’occupazione, non potrà esserci una vera democrazia”, afferma.

L’emigrazione non è un’idea peregrina per Shira. Quando lei era bambina la sua famiglia ha vissuto per alcuni anni negli Stati Uniti. “Mi rendo conto che è possibile vivere in modo diverso, ma avendo fatto l’esperienza dell’emigrazione so quanto sia difficile”.

Il suo inglese può anche essere eccellente, ma “non mi ci sento a casa”. Inoltre sa bene quanto sia difficile integrarsi in un nuovo posto. “Ricordo quanto fu difficile per me da ragazzina, quindi cosa potrei aspettarmi a oltre 40 anni?”.

Un altro motivo di preoccupazione riguarda la salute. “Ho problemi di salute, sono seguita dall’Assicurazione Nazionale e mi curo nel sistema sanitario pubblico”, spiega. “Inoltre ho qui una rete di sostegno fatta di familiari e amici. Ricostruire tutto questo in un nuovo posto sarebbe molto complicato”.

E come fare a trasferire i suoi animali domestici e le sue cose, e dove? “Non è una decisione semplice: gli Stati Uniti sono in condizioni terribili, e in passato New York non è stata proprio gentile con me”, racconta.

Ciononostante, Shira rimane convinta che lascerà Israele: “Non so come né quando e forse mi illudo, ma la vita qui sta diventando insopportabile e sento che mi stanno rubando il diritto di sentirmi a casa”.

Il divario tra le opinioni dominanti e le posizioni politiche di Shira – specialmente dopo il 7 ottobre – l’ha fatta sentire indesiderata. Oggi si sente sempre più estranea a ciò che l’essere israeliani sembra rappresentare.

Manifestazione a Bruxelles contro i bombardamenti a Gaza l’11 maggio 2025. Foto: AFP/HATIM KAGHAT

Racconta di come siano cambiate dopo il 7 ottobre le chiacchiere al parco dove porta a spasso il cane. Un giorno, mentre conversava con un gruppo di donne con cui aveva rapporti amichevoli, una ha chiesto: “In quale modo sarebbe meglio spazzare via Gaza: per fame o con la bomba atomica?”.

Shira si chiede: “Come è possibile che questa sia una conversazione nomale per strada, e che io invece sia considerata strana?”.

Quando la casa brucia, si resta

Il regista israeliano Barak Heymann ha la sensazione di vivere in un universo parallelo israeliano. “Non respiriamo la stessa aria”, dice.

Si riferisce agli elettori di destra, ma anche ai suoi stessi concittadini che protestano contro lo smantellamento della magistratura e per un accordo che riporti a casa tutti gli ostaggi. Eppure, questi spiriti a lui affini ignorano la sofferenza dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania.

“Questo fa di me un eterno guastafeste. Sono con loro nella lotta contro il colpo di Stato giudiziario e provo la stessa rabbia per gli ostaggi abbandonati, ovviamente”, continua Heymann.

“Ma quando racconto loro che circa 70 prigionieri palestinesi sono morti nelle carceri israeliane dall’inizio della guerra, mettono in dubbio le mie fonti. E quando nel gruppo di lavoro WhatsApp scrivo dei bambini di Gaza uccisi dai soldati, vengo considerato un’estremista e un esecrabile provocatore, come se fossi insensibile alla sofferenza degli israeliani».

Il regista Barak Heymann. Foto: Moti Milrod

Heymann non frequenta più i social media ormai da un anno, dopo che la sua foto e le sue informazioni personali sono state condivise in un gruppo Telegram di estrema destra. Ma su Whatsapp legge dei bambini uccisi a Gaza.

“La maggior parte degli ebrei israeliani vive in una falsa realtà, dove c’è stato un Olocausto il 7 ottobre, mentre io vivo in una realtà in cui c’è un Olocausto a Gaza e in Cisgiordania, e questo crea una disconnessione emotiva molto pesante e triste”, osserva Heymann.

Quasi tutto ciò che accade gli appare in modo diverso rispetto alle altre persone; per esempio, la recente lettera dei riservisti piloti di jet da combattimento. “Questa frase secondo cui dobbiamo riportare a casa gli ostaggi «persino a costo di mettere fine alla guerra», è come dire che smetterla di uccidere bambini sia un prezzo da pagare e non qualcosa di desiderabile”, commenta Heymann.

Anna Kardaszewska, la sua compagna nativa di Varsavia, era venuta in Israele nel 2009 per stare con lui. Anche se per un po’ hanno spesso parlato di vivere in Polonia, quando è scoppiata la guerra e Kardaszewska ha deciso che era ora di partire Heymann si è reso conto che non poteva raggiungerla.

Per adesso lei e i bambini sono in Polonia, mentre Heymann va a trovarli ogni mese. Dice di non poter lasciare il suo lavoro di direttore della scuola di cinema del College di Beit Berl, a nordest di Tel Aviv.

“Per me è inimmaginabile dire ai miei studenti che qui è difficile, quindi io me ne vado e voi arrangiatevi. Quando la casa è in fiamme il mio istinto è di restare, resistere e gettare acqua sul fuoco”.

La sua situazione è “strana e complicata”, dice: “Politicamente parlando preferisco combattere i fascisti. Dal punto di vista emotivo invece, anche se sono disgustato da tutto questo nazionalismo israeliano e sostengo coloro che boicottano Israele, allo stesso tempo sono la persona più israeliana del mondo e mi considero un patriota”.

Semplicemente il senso di estraneità non è stato abbastanza forte da decidere di andarsene. “Viaggio in tutto il mondo per lavoro, ma il posto che preferisco resta questo”, afferma. “Mi piacciono il modo di pensare, il clima, la gente, la lingua, il cibo. Insomma, resto qui non solo per questioni di principio, ma anche per un bel po’ di sano egoismo”.

Ovviamente Heymann sta lavorando a un documentario in lingua ebraica sugli israeliani che lasciano il Paese. “È totalmente schizofrenico”, dice con un sorriso, per poi aggiungere che mentre la sua famiglia era in viaggio per Varsavia lui passava il tempo con persone che si preparavano a trasferirsi all’estero.

“Dovrò decidere quando raggiungerli, perché la nostalgia è l’emozione più forte che provo in questo momento”, dice. “Ma spero che, anche se li raggiungerò, sarà solo per un periodo limitato. Più le cose si fanno difficili qui, più sento il desiderio e il dovere di restare.”

Una nuova borsa di problemi

Meital, 38 anni, esperta di sostenibilità originaria di Gerusalemme, ha scelto di usare uno pseudonimo. Racconta di prendere una decisione ogni settimana, a volte ogni giorno, sul fatto di rimanere o meno in Israele. Single, afferma di porsi la stessa domanda dal conflitto di Gaza del 2014.

“Ma di recente la decisione di restare si fa sempre più difficile”, afferma. “Per la prima volta mi sono resa conto di avere una linea rossa: se perdiamo alle prossime elezioni me ne andrò, perché mi renderò definitivamente conto che per le persone come me qui non c’è più posto”.

Anche Meital da bambina ha vissuto un trasferimento. Quando aveva 11 anni la sua famiglia si è trasferita a Londra per alcuni anni, e da adulta lei vi ha frequentato un master.

“Sono qui per scelta”, dice. “Quando le persone parlano di emigrare, faccio loro notare che non è un picnic. Chi non ne ha vissuto l’esperienza non può capire la profondità del senso di solitudine”.

Sotto molti aspetti la vita era migliore in Inghilterra. “Più soldi, più cultura. Laggiù tutto è meglio, tranne ciò che conta davvero”.

Quindi cos’è che conta davvero? “Innanzitutto, i miei genitori sono qui, e non sono giovani”, risponde. “Una volta restavo per senso di appartenenza, oggi è soprattutto la consapevolezza che il tempo che posso ancora passare con i miei famigliari più stretti è limitato”.

Poi aggiunge: “C’è anche una cosa che avrebbe detto mia nonna. Vengo da una famiglia di kibbutzniks che ha contribuito a costruire il Paese, ferventi sionisti. Lasciare per sempre Israele sarebbe per noi come rinunciare alla religione”.

Inoltre Meital non vuole partire con la sensazione di fuggire; vuole andare verso qualcosa. “Molte persone mi dicono che ho un passaporto straniero, quindi sono a cavallo”, dice.

“Ma la burocrazia non è l’ostacolo più grande alla migrazione. Ciò che è difficile è lasciare la tua casa”.

(traduzione dall’inglese di Giacomo Coggiola)