Per le donne palestinesi incinte i posti di blocco sono questione di vita o di morte

una donna al checkpoint per andare a pregare alla moschea di Al Aqsa il 5 aprile 2024. Foto: Wahaj Bani Moufleh/ActiveStills
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Hala H.

10 giugno 2025, +972 Magazine

Quando sono entrata in travaglio ho rimandato la partenza per ore, per paura dei soldati e dei coloni israeliani. Siamo arrivata all’ospedale di Hebron in tempo, ma non tutte sono così fortunate.

Da un anno e mezzo Israele sta imponendo un sistema di checkpoint e blocchi stradali sempre più soffocante in tutta la Cisgiordania. Durante il cessate il fuoco a Gaza lo scorso gennaio l’ingresso al mio villaggio, Umm Al-Khair è stato sbarrato, così come quello a tutte le città e i villaggi della Cisgiordania, come forma di punizione collettiva. Non essendoci nessun negozio vicino, le incombenze quotidiane come comprare un chilo di sale a Yatta, la città più vicina, si sono trasformate da una commissione di 20 minuti a un calvario di due ore. Anche se alla fine l’entrata principale al villaggio è stata riaperta, da allora ci sono state molte altre chiusure.

Ma un posto di blocco non è solo un contrattempo, può anche fare la differenza tra la vita e la morte. Nel settembre 2024 ero incinta di sei mesi. Non essendoci alcun ospedale o clinica vicino a noi, sono dovuta andare al centro sanitario dell’UNRWA per un normale controllo. Un vicino di casa ha portato me e mia madre in macchina fino all’entrata della città, e per fortuna il posto di blocco era aperto. Da lì, abbiamo preso un taxi fino in centro. Dopo ore di attesa e dopo aver fatto gli accertamenti medici ce ne siamo andate. Ho ricordato ai medici che venivo da una zona molto distante e che quindi dovevamo tornare presto, perché non si può mai sapere quando puoi trovare un nuovo posto di blocco.

Ma lungo la strada di ritorno da Hebron mi hanno detto che i posti di blocco erano chiusi alle auto e sarebbe stato impossibile tornare al villaggio in macchina dalla città: l’unica possibilità era fare un chilometro a piedi e poi prendere un taxi. Non avevo scelta, volevo tornare a casa. Non potevo aspettare che i posti di blocco venissero riaperti. Avrebbero potuto aprire dopo un’ora, o più tardi nella giornata, o il giorno dopo. Non si possono fare previsioni.

Abbiamo iniziato ad attraversare il posto di blocco a piedi, e all’inizio non ho visto soldati. Improvvisamente un’automobile è entrata nel checkpoint e ci ha superato in pochi secondi. Ho visto un gruppo di circa sei soldati che correvano verso di noi gridando come ossessi. Mi è sembrato che il sangue mi si congelasse nelle vene. Ho provato a camminare ma ero paralizzata dalla paura, proprio non riuscivo a muovermi. Mia madre mi ha spinto, dicendo «Su, dai, ci spareranno se non ci muoviamo. Riesco a malapena ad andare avanti con le mie cose, sono sotto shock anch’io».

Quando uno dei soldati ha raggiunto l’automobile che era entrata nel posto di blocco, ha iniziato a urlare e a colpire il finestrino con la sua arma, ordinando diverse volte all’auto di tornare indietro. Mia madre ha provato a continuare a camminare nonostante la scena terrificante a cui stavamo assistendo, ma io non riuscivo a controllare il mio corpo. Abbiamo oltrepassato il trambusto e ho posato le mie cose.

Poi ho sentito delle voci che mi dicevano: «Dai, presto. Cammina, non fermarti». Non sapevo proprio da dove venissero quelle voci. Mia madre mi ha detto di non girarmi e di affrettare il passo. Finalmente siamo riuscite ad arrivare al taxi che ci aspettava all’entrata di Hebron, e dopo che siamo salite in macchina mia madre mi ha detto che le voci che sentivamo venivano dalla torretta militare sopra di noi. Quando siamo arrivate a casa ho provato a riposarmi ma ho continuato ad avere degli incubi riguardo a quello che era successo. Ho sperato che nessuno mai dovesse sentirsi come me in quel momento.

Paura e angoscia mi hanno sopraffatta”

Poco dopo, una mia cara amica ha avuta anche lei un’esperienza terrificante con le chiusure stradali e i posti di blocco. Stava andando al più vicino centro sanitario nella città di Yatta per partorire. Quando hanno saputo che la strada più corta era chiusa, non hanno potuto fare altro che prendere una strada sterrata non adatta alla macchina a noleggio, e ancor meno a dei passeggeri.

Mentre andavano la mia amica non ha sopportato i dolori del travaglio e ha partorito la sua bambina in mezzo alla strada. Esiste un dolore più grande di questo? Può esistere un’esperienza più spaventosa per una donna?

Solo quando ha finalmente raggiunto l’ospedale, dove è rimasta per più di due giorni, un medico ha potuto visitarla e rassicurarla sulla salute della bambina. Io l’ho sostenuta durante questo periodo stressante. Mi ha detto che la paura e l’angoscia che ha provato durante il travaglio sono state più dolorose del parto. Pensava che il suo primo parto sarebbe stato facile, che il dottore le avrebbe consegnato la bambina e lei l’avrebbe stretta al petto. «La paura e l’angoscia mi hanno sopraffatto proprio in quel momento che avevo aspettavo da tempo», mi ha detto.

Una fredda notte di dicembre, esattamente a mezzanotte, sono andata in travaglio. Mi sono svegliata e sono andata in bagno. Il dolore è diventato sempre più insopportabile. Mi ricordo molto bene che mi sono chiesta se fosse il caso di avvisare mio marito.

«Non posso dirglielo, non c’è nulla che possa fare», ho pensato. «Vorrà portarmi al più vicino ospedale a Hebron, ma la strada per arrivarci fa paura ed è piena di coloni e di posti di blocco controllati dall’esercito, specialmente di notte». Ho deciso di tenermi il dolore e aspettare fino al mattino.

Ma dopo due ore il dolore era così forte che non riuscivo a stare in piedi. Finalmente è arrivata la mattina. Ho immediatamente svegliato mio marito e gli ho chiesto di portarmi in ospedale. Siamo arrivati esattamente alle 8, e l’ultima cosa che ricordo è il via vai dei medici attorno a me.

Quando mi sono svegliata ho provato ad ascoltare il respiro o la voce del mio bambino. Non riuscivo a muovere il corpo né a destra né a sinistra per vederlo. Ho continuato a chiedere del mio piccolo e alla fine mi hanno detto che le infermiere lo stavano preparando. Dopo un’ora è venuto il medico e mi ha chiesto: «Perché non è venuta prima in ospedale?». Ho spiegato che il viaggio era molto difficile e gli ho raccontato della mia paura di incontrare l’esercito e i coloni durante la notte.

«Grazie a dio siamo riusciti a far nascere il bambino all’ultimo momento», ha detto. È stanco e ha bisogno di un po’ di ossigeno, ma sopravviverà».

[Traduzione dall’inglese di Federico Zanettin]