Ramzy Baroud
12 giugno 2025 – Middle East Monitor
I tifosi di tutto il mondo stanno contestando senza mezzi termini il continuo sostegno della FIFA a Israele, organizzandosi con una coesione senza precedenti a sostegno della Palestina. A differenza di azioni precedenti, questa mobilitazione è ora notevolmente ben coordinata, ampia e solida. Sono lontani i tempi in cui gran parte della solidarietà sportiva emergeva dalla tifoseria di club come il Celtic, il Deportivo Palestino o squadre arabe. Gaza è ora il fulcro indiscusso della solidarietà sportiva mondiale. Le conseguenze di ciò sono probabilmente le più significative in termini di raggiungimento di una consapevolezza globale totale in particolare del genocidio israeliano a Gaza, ma anche dell’occupazione militare israeliana e dell’apartheid in tutta la Palestina occupata.
Per anni, i media mainstream hanno fatto del loro meglio per ignorare bandiere, striscioni e cori pro-Palestina. Quando la solidarietà ha superato livelli tollerabili, che si trattasse di Scozia o Cile, la FIFA ha represso con multe e varie altre misure punitive. Oggi, tuttavia, tali tattiche stanno fallendo completamente. A volte, il Celtic Park sembra essere un’enorme manifestazione pro-Palestina, e numerosi altri club si stanno unendo o stanno intensificando i loro sforzi.
Il 31 maggio, durante la finale di UEFA Champions League del Paris Saint-Germain contro l’Inter, è sembrato che tutte le attività dei tifosi del PSG si siano concentrate sulla Palestina. I cori di “Nous sommes tous les enfants de Gaza” – “Siamo tutti i bambini di Gaza” – risuonavano ovunque, dentro e fuori dallo stadio. Non appena Achraf Hakimi ha segnato il gol del vantaggio, sullo sfondo si è srotolata un’enorme bandiera: “FERMATE IL GENOCIDIO A GAZA”.
Questi atti di solidarietà sportiva senza precedenti sono molto simili al boicottaggio sportivo del Sudafrica dell’apartheid, iniziato a metà degli anni ’60. Questi boicottaggi sono stati determinanti nello scatenare il dibattito e spostare la discussione sull’apartheid dalle aule accademiche alle piazze.
Sebbene quanto sopra sia vero, i due casi non sono sempre paragonabili. All’epoca, grazie agli sforzi dei governi del Sud del mondo, i boicottaggi iniziarono in gran parte a livello istituzionale e ottennero gradualmente un massiccio sostegno popolare.
Nel caso palestinese, invece, si registra un completo collasso morale da parte di istituzioni come la FIFA, mentre sono i tifosi a sostenere la solidarietà.
Ma la FIFA non ha ancora preso alcuna misura contro Israele, nonostante il palese razzismo all’interno delle istituzioni sportive israeliane e il danno diretto che sta infliggendo allo sport palestinese. La scusa preferita dalla FIFA è lo slogan: “Sport e politica non vanno d’accordo”. Ma se così fosse, perché allora la FIFA ha combinato perfettamente le due cose dopo l’invasione russa dell’Ucraina?
Quasi subito dopo l’inizio della guerra i paesi occidentali, con la pretesa di parlare a nome della comunità internazionale, hanno iniziato a imporre centinaia, e poi migliaia, di sanzioni contro la Russia, che si è ritrovata isolata in ogni ambito, incluso lo sport. La FIFA si è subito schierata.
Sebbene sia iniziata molto prima del genocidio israeliano a Gaza, riguardo alla Palestina l’ipocrisia è sconfinata. Ogni sforzo palestinese, spesso sostenuto da associazioni arabe, musulmane e del Sud del mondo, per ritenere Israele responsabile dell’apartheid e dell’occupazione militare si è scontrato con un fallimento sistematico. Ogni volta, la risposta è la stessa. La dichiarazione imbarazzante della FIFA dell’ottobre 2017 ne è un esempio lampante.
La dichiarazione era una risposta al rapporto finale del “Comitato di monitoraggio FIFA Israele-Palestina” che faceva seguito alle ripetute richieste da parte di organizzazioni internazionali di indagare sulla questione dell’occupazione israeliana e sulla necessità che la FIFA chiamasse Israele a rispondere delle proprie azioni.
La replica è stata netta: “La situazione attuale (…) non ha nulla a che fare con il calcio”. È di “eccezionale complessità e delicatezza” e non può essere “modificata unilateralmente da organizzazioni non governative come la FIFA”. Lo “status finale dei territori della Cisgiordania” è di competenza delle competenti autorità di diritto pubblico internazionale.
La dichiarazione concludeva che “la FIFA… deve rimanere neutrale rispetto alle questioni politiche”, aggiungendo che l’associazione “si asterrà dall’imporre sanzioni” a Israele e che “la questione è dichiarata chiusa”.
Da allora molto è cambiato. Ad esempio, nel luglio 2018, Israele si è dichiarato un paese riservato agli ebrei, da cui la Legge sullo Stato nazionale. Ha inoltre approvato una legge nel luglio 2020 che consente l’annessione della Cisgiordania occupata. Dal 7 ottobre 2023 ha lanciato un genocidio contro Gaza.
I termini delle accuse questa volta non provengono dai palestinesi e loro alleati. È il linguaggio delle istituzioni internazionali che stanno indagando attivamente sulle orribili violazioni commesse da Israele a Gaza.
Sebbene la FIFA possa ancora affermare che la questione sia troppo “complessa” e “delicata”, come può ignorare che oltre 700 atleti palestinesi sono stati uccisi e oltre 270 impianti sportivi sono stati distrutti nei primi 14 mesi di guerra?
Qui va detto qualcosa sulla tenacia dei palestinesi, una qualità che non dipende dall’azione o dall’inazione della FIFA. La nazionale di calcio palestinese continua a crescere e, cosa ancora più impressionante, i bambini palestinesi di Gaza riescono in qualche modo a crearsi spazi persino tra le rovine delle loro città per calciare un pallone, rubando così un momento di gioia agli orrori del genocidio.
Sebbene la FIFA continui a deludere la Palestina, gli appassionati di sport si rifiutano di essere parte di questa farsa morale. E, in definitiva, saranno la tenacia dei palestinesi e la crescente solidarietà con la loro giusta causa a costringere la FIFA ad agire, non solo per il bene della Palestina, o anche per il futuro dello sport, ma per la rilevanza stessa della FIFA.
Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.
(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)