Joseph Massad
14 giugno 2025 – Middle East Eye
Da Gaza a Teheran, la guerra in espansione di Israele viene giustificata dall’Occidente come autodifesa, proprio come nel 1967, quando una guerra di conquista fu salutata come un trionfo di civiltà.
Venerdì di primo mattino Israele ha lanciato attacchi aerei non provocati in profondità all’interno del territorio iraniano, prendendo di mira siti vicino a Isfahan e Teheran. Tra le vittime ci sarebbero scienziati, alti funzionari governativi e civili, tra cui donne e bambini.
Tuttavia, nel giro di poche ore, leader e organi di informazione occidentali hanno definito l’aggressione israeliana in termini di autodifesa “preventiva”. Funzionari statunitensi hanno affermato che Israele ha agito per contrastare una “imminente” minaccia iraniana, mentre il leader della maggioranza al Senato John Thune ha insistito sul fatto che gli attacchi erano necessari per contrastare “l’aggressione iraniana” e proteggere gli americani.
Nonostante le continue aggressioni militari di Israele in tutta la regione in Occidente ha prevalso, fin da prima della sua fondazione come regime coloniale di insediamento nel 1948, una rappresentazione di Israele come vittima delle sue stesse vittime, piuttosto che come stato violento e predatorio.
Più terre e popoli Israele assoggetta e opprime maggiore è l’insistenza con cui l’Occidente lo dipinge come vittima.
La scelta di questo modo di rappresentare Israele non è casuale.
Nel 1936, pochi mesi dopo lo scoppio della Grande Rivolta Palestinese contro il colonialismo d’insediamento sionista e l’occupazione britannica, il leader sionista polacco David Ben-Gurion (il cui nome alla nascita era Grun) spiegò come i sionisti dovessero presentare la loro conquista della Palestina.
Non siamo arabi, e gli altri ci valutano con criteri diversi… I nostri strumenti di guerra sono diversi da quelli degli arabi, e solo i nostri strumenti possono garantire la nostra vittoria. La nostra forza sta nella difesa… e questa forza ci darà una vittoria politica se l’Inghilterra e il mondo sapranno che ci stiamo difendendo e non attaccando.
Nel 1948, e in linea con questa strategia sionista, la narrazione occidentale dominante dipinse i sionisti, che massacravano i palestinesi e li espellevano dalla loro patria, come povere vittime che si limitavano a difendersi dalla popolazione indigena di cui avevano conquistato le terre.
Tuttavia fu la conquista “difensiva” della Cisgiordania e di Gaza da parte di Israele – proprio 58 anni fa – a consolidarne saldamente l’immagine di “vittima” assediata e a gettare le basi per il genocidio in corso a Gaza.
Oggi persino questo genocidio viene presentato in Occidente come una questione di autodifesa. Israele, ci viene detto, rimane vittima delle sue vittime – tra cui le 200.000 che ha ucciso o ferito nella sua ultima guerra per “difendersi”.
Sacro vittimismo
In Occidente la guerra del giugno 1967 consacrò Israele come vittima intoccabile.
I suoi sostenitori si moltiplicarono, sia tra i cristiani occidentali che tra gli ebrei, che consideravano arabi e palestinesi gli oppressori di Israele.
In effetti fu proprio questo clima di estrema ostilità anti-araba a segnare una svolta nel processo di politicizzazione del compianto Edward Said, intellettuale che ne fu testimone diretto negli Stati Uniti.
Le conquiste territoriali di Israele furono celebrate come atti di eroica autodifesa, un’inversione deliberata tra vittima e aggressore che continua a plasmare la percezione occidentale.
Una rassegna dei cosiddetti successi della guerra del 1967 e della pianificazione che li ha preceduti aiuta a spiegare perché Israele sia ancora dipinto come vittima nonostante uccisioni di massa e l’espulsione forzata della popolazione palestinese.
Tra il 1948 e il 1967 Israele distrusse circa 500 villaggi palestinesi, sostituendoli con colonie ebraiche. Questa cancellazione fu salutata in Occidente come un miracolo: la costruzione di uno Stato ebraico dopo l’Olocausto, nonostante l’odiosa resistenza dei palestinesi indigeni che cercavano di salvare la loro patria.
Lo storico Isaac Deutscher, spesso descritto come un critico del sionismo, definì la cancellazione della Palestina e dei palestinesi da parte di Israele “una meraviglia e un prodigio della storia”, simile ai “grandi miti e leggende eroiche” dell’antichità.
Moshe Dayan, capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, così rifletteva sui suoi leggendari successi nella distruzione della Palestina nel 1969: “Villaggi ebraici sono stati costruiti al posto di villaggi arabi. Non conoscete nemmeno i nomi di questi villaggi arabi, e non vi biasimo, perché quei libri di geografia non esistono più. Non solo non esistono i libri, ma nemmeno i villaggi arabi”.
L’orgoglio di Dayan per il furto di terre palestinesi da parte di Israele lo aveva portato, un anno prima, a esortare gli israeliani a non dire mai ‘basta’ quando si trattava di acquisire territorio: ‘Non dovete fermarvi – Dio non voglia – e dire: ‘è tutto; fino a qui, fino a Degania, a Muffalasim, a Nahal Oz!’ Perché questo non è tutto.”
Complicità dell’Occidente
In Occidente il fatto che i sionisti abbiano fondato il loro Stato su terra palestinese rubata non è mai stato motivo di critica.
Pur glorificando i leggendari furti di terre da parte di Israele le potenze occidentali erano dispiaciute per le sue dimensioni ridotte e ne hanno sostenuto i piani espansionistici coloniali, già ampiamente in atto. Dopotutto se Israele era la vittima aveva ovviamente bisogno di occupare ancora più territori.
Questa opinione è stata recentemente ripresa dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che a febbraio ha difeso il piano di Israele di annettere la Cisgiordania affermando: “È un piccolo Paese… è un piccolo Paese in termini di territorio”.
L’avidità di Israele per la terra altrui divenne inequivocabilmente evidente prima e dopo l’invasione e la prima occupazione di Gaza e della penisola del Sinai nel 1956.
Dopo questa conquista il laico David Ben-Gurion, primo ministro fondatore di Israele, si dedicò a discorsi biblici, affermando che l’invasione del Sinai “è stata la più grande e gloriosa negli annali del nostro popolo”.
L’invasione e l’occupazione vittoriose, affermò, restituirono “il patrimonio di Re Salomone dall’isola di Yotvat a sud fino alle pendici del Libano a nord”. “Yotvat”, come gli israeliani si affrettarono a rinominare l’isola egiziana di Tiran, “tornerà a far parte del Terzo Regno di Israele”.
Nel pieno della rivalità inter-imperiale con Francia e Gran Bretagna, gli Stati Uniti insistettero per il ritiro israeliano, suscitando l’indignazione di Ben-Gurion: “Fino alla metà del VI secolo l’indipendenza ebraica fu mantenuta sull’isola di Yotvat… che è stata liberata ieri dall’esercito israeliano”.
Ben Gurion dichiarò inoltre la Striscia di Gaza “parte integrante della nazione”. Invocando la profezia biblica di Isaia, giurò: “Nessuna forza, qualunque sia la sua natura, costringerà Israele a evacuare il Sinai”.
Nonostante il sostegno popolare a Israele in Occidente, gli israeliani si ritirarono quattro mesi dopo sotto la pressione dell’ONU, degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. L’Egitto accolse la Forza di Emergenza delle Nazioni Unite (Unef) sul suo lato del confine, ma Israele si rifiutò di ricevere osservatori dell’Unef.
Strategia espansionistica
Nel 1954, il Ministro della Difesa Pinhas Lavon “propose di entrare nelle zone smilitarizzate [al confine tra Israele e Siria], di conquistare le alture al di là del confine siriano [quindi una parte o la totalità delle alture del Golan] e di entrare nella Striscia di Gaza o conquistare una posizione egiziana vicino a Eilat”.
Dayan ipotizzò anche la conquista di Ras al-Naqab, a sud, nel territorio egiziano, o di una parte del Sinai, a sud di Rafah, fino al Mediterraneo. Nel maggio del 1955, propose persino che Israele annettesse la parte del Libano a sud del fiume Litani.
Gli israeliani portarono avanti anche dei piani per rubare tutto il territorio nella zona demilitarizzata (DMZ) lungo il confine siriano vicino alle alture del Golan. Nel 1967 avevano completato la conquista dell’intera area.
Oltre a questi furti e occupazioni di terre le ambizioni territoriali di Israele si espansero costantemente tra il 1948 e il 1967. Cercò ripetutamente di provocare le sue vittime arabe a rispondere agli attacchi, al fine di creare un pretesto per invadere le ambite terre arabe, continuando a presentarsi come vittima delle sue vittime.
Il 13 novembre 1966 gli israeliani invasero il villaggio di Samu, nella Cisgiordania meridionale, oltrepassando il confine con la Giordania, e fecero saltare in aria più di 125 case, insieme all’ambulatorio e alla scuola del villaggio.
I soldati giordani che reagirono all’attacco caddero in un’imboscata prima di raggiungere il villaggio. Gli israeliani uccisero 15 soldati e tre civili, ferendone altri 54.
Nell’aprile del 1967 gli israeliani minacciarono la Siria, dopo un’ulteriore erosione della zona demilitarizzata attraverso l’invio di contadini, trattori e soldati travestiti da poliziotti. Quando i siriani risposero con colpi di mortaio, le “vittime” israeliane lanciarono 70 aerei da combattimento, bombardarono la stessa Damasco e uccisero 100 siriani.
Casus belli prefabbricato
Le provocazioni israeliane indignarono l’opinione pubblica araba.
Nel maggio del 1967 il leader egiziano Gamal Abdel Nasser cedette alla fine alle pressioni popolari provenienti da tutto il mondo arabo per rimuovere dall’Egitto l’Unef, unità militari che Israele non aveva mai accettato sul suo versante del confine, e per chiudere alle navi israeliane lo Stretto di Tiran, all’imbocco del Mar Rosso. Secondo il diritto internazionale si trattava di un’operazione legale in quanto lo stretto rientrava nelle acque territoriali egiziane.
Nasser inviò due divisioni dell’esercito nel Sinai per proteggere il confine dopo la partenza dell’Unef e chiuse lo stretto, attraverso il quale passava meno del 5% delle navi israeliane.
Israele, che aveva provocato la reazione araba e aspettava una scusa giusta per attaccare le sue vittime e rubare le loro terre, ora ne aveva diverse.
Il 5 giugno 1967 Israele invase Egitto, Giordania e Siria. Nel giro di sei giorni occupò, per la seconda volta in un decennio, la Striscia di Gaza e la penisola egiziana del Sinai fino al Canale di Suez, oltre all’intera Cisgiordania e alle alture del Golan siriane.
A differenza del mondo arabo, che definisce l’invasione come la “Guerra del giugno 1967”, gli israeliani e i loro sponsor imperialisti occidentali non solo insistono sul fatto che Israele sia stato “invaso” piuttosto di aver attaccato i suoi vicini arabi, ma chiamano anche le sue molteplici invasioni la “Guerra dei sei giorni”, paragonando Israele a Dio, che creò un mondo nuovo in sei giorni e si riposò il settimo.
L’Occidente esplose in una sfrenata esultanza razzista.
Il Daily Telegraph definì la guerra “Il trionfo dei civilizzati”, mentre il quotidiano francese Le Monde dichiarò che la conquista israeliana aveva “liberato” l’Europa “dalla colpa di cui si era macchiata in seguito al dramma della Seconda Guerra Mondiale e, prima ancora, per le persecuzioni che, dai pogrom russi all’affare Dreyfus, hanno accompagnato la nascita del sionismo”. Nel continente europeo, gli ebrei ebbero finalmente la loro rivincita, ma ahimè, sulla pelle degli arabi, sulla tragica e stupida accusa: “andarono come pecore al macello”.
Cancellare la Palestina
Come avevano fatto nel 1948, gli israeliani procedettero a cancellare dalla mappa i villaggi palestinesi in Cisgiordania, tra cui Beit Nuba, Imwas e Yalu, espellendone i 10.000 abitanti.
Continuarono a decimare, tra gli altri, i villaggi di Beit Marsam, Beit Awa, Hablah e Jiftlik.
A Gerusalemme Est gli israeliani irruppero nel quartiere Mughrabi [maghrebino, ndt.], così chiamata sette secoli prima, quando i volontari Mughrabi provenienti dal Nord Africa si unirono alla guerra di Saladino contro i crociati franchi.
Il quartiere era stato per secoli proprietà di una fondazione islamica. Migliaia di abitanti ebbero solo pochi minuti per abbandonare le proprie case, che furono immediatamente rase al suolo per far spazio alle masse ebraiche conquistatrici, che entrarono nella Città Vecchia e celebrarono la vittoria di fronte al Muro di Buraq, il cosiddetto “Muro Occidentale”.
Il primo governatore militare israeliano dei territori occupati, l’irlandese Chaim Herzog, che sarebbe poi diventato il sesto presidente di Israele, si attribuì il merito della distruzione dell’antico quartiere densamente popolato.
Nel tipico stile razzista israeliano, lo descrisse come un “gabinetto” che “avevano deciso di rimuovere”. Questo è evidentemente ciò che fanno le vittime “civilizzate” quando trionfano sulle loro stesse vittime.
Le jeep israeliane attraversarono Betlemme minacciando attraverso gli altoparlanti la popolazione: “Avete due ore per lasciare le vostre case e fuggire a Gerico o ad Amman. Se non lo fate le vostre case saranno bombardate”.
Seguì un’espulsione di massa, con oltre 200.000 palestinesi costretti ad attraversare il fiume Giordano per raggiungere la riva orientale. Come nel 1948, civili e soldati israeliani saccheggiarono le proprietà palestinesi.
A Gaza fino al dicembre 1968 le forze israeliane espulsero 75.000 palestinesi e impedirono ad altri 50.000, che al momento della guerra del 1967 lavoravano, studiavano o erano in viaggio in Egitto o altrove, di tornare a casa.
L’ONU registrò 323.000 palestinesi sfollati da Gaza e dalla Cisgiordania, 113.000 dei quali erano rifugiati del 1948 ora espulsi per la seconda volta.
A quanto pare, anche questo fu ritenuto coerente con un comportamento “civilizzato”.
“Vittime civilizzate”
Israele espulse più di 100.000 siriani dalle alture del Golan. Alla fine della guerra ne erano rimasti solo 15.000.
Distrusse 100 città e villaggi siriani, trasferendone le terre ai coloni ebrei. Nel Sinai, dove la popolazione all’epoca era composta principalmente da beduini e contadini, 38.000 persone divennero profughe.
Durante la guerra Israele uccise più di 18.000 egiziani, siriani, giordani e palestinesi, perdendo meno di 1.000 soldati.
Durante e dopo la guerra gli israeliani uccisero a colpi di arma da fuoco almeno 1.000 prigionieri di guerra egiziani che si erano arresi, costringendo molti a scavarsi la fossa prima di essere giustiziati.
Inoltre uccisero i palestinesi che prestavano servizio nell’esercito egiziano, selezionandoli appositamente per l’esecuzione. Con l’avanzare dell’occupazione Israele continuò a deportare centinaia di palestinesi.
Tutto ciò costituì, agli occhi dell’Occidente, un’ulteriore dimostrazione di ciò che le vittime “civilizzate” fanno quando conquistano le terre di coloro che considerano incivili.
Eppure, nonostante i consueti crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, il palese razzismo anti-arabo e il disprezzo suprematista, la conquista israeliana fu comunque presentata come una giusta vittoria delle “vittime” israeliane sui loro “oppressori” arabi.
Espansione coloniale
Mentre un coro filo-israeliano in Occidente insisteva sul fatto che il povero Israele stesse mantenendo la sua brutale occupazione dei territori conquistati nel 1967 per poi barattarli con le sue vittime di guerra in cambio della pace, in realtà Israele stava portando avanti il processo di colonizzazione.
Facciamo un rapido inventario.
Nel 1977, 10 anni dopo l’invasione, uno dopo l’altro i governi laburisti israeliani avevano annesso Gerusalemme Est, costruito 30 colonie ebraiche nella sola Cisgiordania e quattro nella Striscia di Gaza, con altre in costruzione.
Oltre 50.000 coloni ebrei si erano già trasferiti nelle colonie fondate a Gerusalemme Est, che vennero deliberatamente e fraudolentemente definite “quartieri”.
Prima che il partito Likud salisse al potere i governi laburisti fondarono anche la maggior parte dei 18 insediamenti coloniali nella penisola del Sinai.
Nel 1972 i laburisti espulsero 10.000 egiziani dopo aver confiscato le loro terre nel 1969. Le loro case, i raccolti, le moschee e le scuole furono rase al suolo per far posto a sei kibbutz, nove insediamenti rurali ebraici e la colonia ebraica di Yamit nel Sinai occupato.
Alla fine le colonie del Sinai furono smantellate nel 1982, in seguito alla firma del trattato di pace tra Egitto e Israele.
Nella Siria occupata Israele istituì la sua prima colonia ebraica, il Kibbutz Golan, nel luglio del 1967.
Durante una visita alle alture del Golan subito dopo la guerra del 1967 il Primo Ministro laburista israeliano Levi Eshkol, il cui nome alla nascita era Shkolnik, fu sopraffatto dalla nostalgia per il suo luogo di nascita, esclamando con gioia: “Proprio come in Ucraina”.
Gli israeliani sfrattarono circa 5.000 rifugiati palestinesi dalle loro case nel “Quartiere ebraico” di Gerusalemme Est, che non era mai stato esclusivamente ebraico e che, prima del 1948, era di proprietà ebraica per meno del 20%. All’epoca, le proprietà ebraiche consistevano in non più di tre sinagoghe con le relative pertinenze.
Nel 1948 i 2.000 abitanti ebrei del quartiere fuggirono nella parte sionista quando l’esercito giordano salvò Gerusalemme Est dal saccheggio e dall’occupazione sionista.
Anche prima del 1948 musulmani e cristiani costituivano la maggioranza degli abitanti del “Quartiere Ebraico” di 2 ettari, e la maggior parte degli ebrei viveva in affitto in abitazioni di proprietà loro o di istituti cristiani o musulmani.
Dopo la conquista israeliana il quartiere fu notevolmente ampliato fino a coprire oltre 16 ettari.
Il Custode Giordano dei Beni degli Assenti [istituzione con sede in Giordania responsabile della gestione delle proprietà di individui divenuti “assenti” a causa del conflitto del 1948, ndt.] aveva conservato tutti i beni ebraici a nome dei loro proprietari originari e non li aveva mai espropriati.
Dopo il 1967 il governo israeliano restituì le proprietà ebraiche a Gerusalemme Est ai loro originari proprietari ebrei israeliani, confiscando al contempo tutte le proprietà palestinesi nel quartiere.
Nel frattempo, le proprietà palestinesi a Gerusalemme Ovest, confiscate da Israele nel 1948, non furono mai restituite ai palestinesi di Gerusalemme Est che, ora sotto occupazione, le rivendicavano.
Il rifacimento di Gerusalemme
Il 29 giugno 1967 Israele pose Gerusalemme Est occupata sotto la municipalità ampliata di Gerusalemme Ovest. Destituì e successivamente deportò il sindaco palestinese-giordano, sciolse il consiglio comunale e collocò la città sotto una amministrazione esclusivamente ebraica.
Subito dopo la conquista l’area fu dichiarata “sito di interesse archeologico”, con il divieto di qualsiasi costruzione.
Le autorità israeliane avviarono scavi archeologici sotterranei alla disperata ricerca del tempio ebraico, portando alla distruzione di numerosi edifici storici palestinesi, tra cui l’ospedale Fakhriyyah del XIV secolo e la scuola al-Tankiziyya.
Nel 1980 Israele annesse ufficialmente la città, un’azione dichiarata “nulla e priva di valore” da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Gli scavi e le trivellazioni sotto e accanto ai luoghi santi musulmani procedettero a ritmo serrato alla ricerca dell’inafferrabile Primo Tempio, che non è mai stato trovato, ammesso che sia mai esistito.
Seguirono presto sfratti di palestinesi di Gerusalemme. Coprifuoco periodici e punizioni collettive furono imposti in tutti i territori occupati.
Inoltre gli israeliani ribattezzarono la Cisgiordania “Giudea e Samaria” e cambiarono i nomi di città e strade per adattarli alle loro fantasie bibliche.
Tutto questo e molto altro hanno preceduto l’attuale genocidio e suscitato elogi o indifferenza da parte dei sostenitori e finanziatori occidentali di Israele.
Un modello persistente
Sembra che il sostegno a Israele da parte dei principali mezzi di informazione occidentali aumenti in proporzione alla sua crudeltà verso le vittime.
La Nakba perpetrata nel 1948 e il sistema di apartheid imposto ai palestinesi che non riuscì a espellere tra il 1948 e il 1967 furono salutati come epiche conquiste da parte delle “vittime ebree” contro le popolazioni a cui avevano rubato le terre e distrutto la vita.
Ma se oggi in Occidente è considerato un crimine morale descrivere la risposta palestinese al colonialismo israeliano in corso come resistenza, lo stesso Ben-Gurion non esitò a chiamarla proprio così nel 1938.
La rivolta palestinese, spiegò, “è una resistenza attiva dei palestinesi a quella che considerano un’usurpazione della loro patria da parte degli ebrei: ecco perché combattono”.
Proseguì: “Dietro i terroristi c’è un movimento che, sebbene primitivo, non è privo di idealismo e abnegazione… noi siamo gli aggressori e loro si difendono. Il paese è loro perché lo abitano, mentre noi vogliamo venire qui e stabilirci, e dal loro punto di vista vogliamo portargli via il loro paese mentre ne siamo ancora fuori”.
A parte questo, è stata la capacità “difensiva” e quasi divina di Israele di annientare le sue vittime nel 1967 a convincere l’Occidente della sua nobile capacità civilizzatrice.
Quella guerra è diventata il modello persistente per le cosiddette campagne “preventive” di Israele, guerre che espandono la sua portata coloniale pur consentendogli di atteggiarsi a vittima innocente.
Quindi non sorprende che i sostenitori occidentali di Israele abbiano invocato questo retaggio non solo dopo i suoi ultimi attacchi contro l’Iran, ma anche durante la sua campagna genocida a Gaza e la sua aggressione di più ampia portata in Cisgiordania, Libano, Siria e Yemen. A loro avviso, Israele non si sta semplicemente difendendo, ma agisce in rappresentanza dell’Occidente.
Il suo attuale furioso accanimento è l’ennesima dimostrazione lampante di ciò che le “vittime” occidentali possono e dovrebbero fare alle loro vittime non occidentali.
Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.
Joseph Massad è docente di politica e storia intellettuale araba moderne alla Columbia University di New York. È autore di numerosi libri e articoli accademici e giornalistici. Tra i suoi libri figurano “Colonial Effects: The Making of National Identity in Jordan” [Conseguenze coloniali: la costruzione dell’identità nazionale in Giordania, ndt.], “Desiring Arabs” [Desideri degli arabi, ndt.], “The Persistence of the Palestinian Question: Essays on Zionism and the Palestinians” [La persistenza della questione palestinese: saggi su sionismo e i palestinesi, ndt.] e, più recentemente, “Islam in Liberalism” [L’Islam nel liberismo, ndt.]. I suoi libri e articoli sono stati tradotti in una decina di lingue.
(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)