A Gaza la cosiddetta “evacuazione dei civili” è un cammino tra bombe e morte

Una ragazza ferita a Gaza City il 16 settembre 2025. Foto: Khames Alrefi / Anadolu/ Reuters
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Amira Hass

17 settembre 2025 – Haaretz

Gaza sta per essere cancellata dalle mappe, pietra dopo pietra. “Le parole stanno perdendo il loro significato e non possono più trasmettere quello che sta succedendo,” scrive un abitante.

“Ho mandato la mia famiglia a sud,” mi ha scritto un amico ieri mattina, “ma io sono rimasto a Gaza City per dire addio alle sue strade e per piangerla. Sto seduto da solo nella casa di mio padre, pensando ai pochi luoghi simbolici ancora in piedi. Non so cosa farò domani. Prevarrà la nostalgia della mia famiglia e mi dirigerò a sud? O avrò il coraggio di rimanere finché il mio sangue, le mie ossa e la mia carne si mescoleranno alla polvere e alla cenere di Gaza mentre viene cancellata dalla faccia della terra, pietra dopo pietra?” Fino alla notte scorsa era ancora nella sua casa a Gaza City. In risposta alla mia preghiera – in cui gli dicevo di sperare di venire a sapere che aveva già raggiunto la sua famiglia – ha ripetuto che probabilmente oggi o domani sarebbe andato a sud.

Ogni momento potrebbe essere l’ultimo.

Ieri pomeriggio la famiglia Zaqout (originaria di Ashdod/Isdud) ha annunciato che 23 dei suoi membri sono stati uccisi in un attacco aereo israeliano la mattina presto, insieme ad altre 24 persone di famiglie vicine che erano rimaste nelle proprie case o tende nel quartiere di Sheikh Radwan, a nord-ovest della città. Nel pomeriggio non tutti i corpi erano stati recuperati e neppure localizzati.

La figlia di altri amici, insieme ai suoi bambini e alla famiglia del marito, è partita ieri verso sud dalla casa semidistrutta in cui ha continuato a vivere persino durante le invasioni sul terreno degli ultimi due anni.

Ci è voluto tempo: tempo per trovare un’auto, per trovare il denaro per pagare un autista, per decidere cosa prendere e cosa lasciarsi dietro, per convincere il figlio più grande che non poteva portarsi i giocattoli e i libri.

Al pomeriggio procedevano lentamente verso sud lungo la strada costiera, ammassati in un’auto tra migliaia di altri veicoli e carretti. Nessuno esprimeva ad alta voce la paura che li assillava miglio dopo miglio, che una bomba o un missile potesse colpire anche loro lungo la strada.

Dopotutto quello che eufemisticamente l’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] chiama l’“evacuazione di civili da Gaza City” è accompagnata da un’incessante raffica di attacchi aerei, bombardamenti ed esplosioni.

A conferma di ciò ieri alle 18,36 l’agenzia di notizie Wattan [palestinese con sede a Ramallah, ndt.] ha informato che cinque persone sono state uccise nei pressi di piazza al-Katiba, nella parte occidentale della città, da un missile mentre viaggiavano in un’auto che stava trasportando verso sud degli sfollati.

Alle 18,24 la stessa agenzia riportava del bombardamento della moschea Al-Aybaki nel quartiere al-Tuffah, nell’est della città.

Alle 18,18 sono giunte informazioni di esplosioni in edifici del quartiere di Shujaiyeh, sempre a est.

Alle 18,10 c’è stata la notizia di attacchi di elicotteri nei pressi dell’incrocio Ansar a ovest – non sono stati dati ulteriori dettagli sul tipo di munizioni.

Alle 17,52 un missile sparato da un drone ha colpito la scuola Hamama a Sheikh Radwan, nel nord della città, dove si erano rifugiati degli sfollati.

Alle 17,32 un video ha accompagnato un’informazione scritta su un intenso bombardamento di edifici residenziali nel campo di rifugiati di Shati: si vedono grigi isolati di cemento, un fischio acuto attraversa l’aria, un incendio che divampa, poi sale del fumo. In sottofondo si sentono le voci di un uomo e vari bambini.

“Vibrazione. All’inizio neppure una voce ma un brivido nella spina dorsale. E poi una voce. Razzi colpiscono la casa che ho davanti,” ha scritto nel fine settimana Anees Ghanima su Facebook, descrivendo un altro bombardamento.

A intervalli di pochi minuti arriva questo tipo di aggiornamenti.

Alle 18,31 l’agenzia di notizie Wattan ha informato che secondo fonti ospedaliere dall’alba il fuoco israeliano ha ucciso 89 persone, 79 delle quali a Gaza.

Una giovane donna della famiglia Samouni, sopravvissuta al bombardamento del 2009 ordinato dall’allora colonello della brigata Givati Ilan Malka, pronuncia la parola “difficile” circa 20 volte durante il nostro colloquio telefonico. È la settima o ottava volta che è stata sfollata con i suoi tre figli di un’età dai nove mesi ai cinque anni, suo marito e la sua famiglia. Ogni volta ha detto che “stavolta è peggio”.

Quattro giorni fa hanno lasciato a piedi il campo profughi di Shati, dove hanno vissuto per mesi in una tenda, in un accampamento sovraffollato di tende e baracche. Un’auto ha portato prima i loro averi in un posto a Deir al-Balah ed è tornata a prenderli. Se lei dice che questa volta è peggio sa quello che dice.

Ha ancora nel cranio frammenti del bombardamento del 2009 nel quartiere di Zeitoun. Continua a soffrire di emicranie e di capogiri. All’epoca su ordine dei soldati lei e circa 100 membri della sua famiglia allargata furono cacciati dalle loro case e obbligati a stare in un edificio inabitabile. Il giorno dopo il colonnello Malka decise, in base alle immagini di un drone, che assi di legno prese dal cortile per accendere un fuoco e preparare il tè erano lanciarazzi. Ventuno persone vennero uccise da un attacco missilistico contro l’edificio. I feriti furono decine.

Oggi a Gaza chiunque – sfollato, ferito o che seppellisce i propri figli, alla ricerca di un pezzo di terra libero per piantarvi una tenda – è un sopravvissuto alle invasioni, agli attacchi e alle guerre precedenti. A Gaza ogni persona ha conosciuto ogni genere di paura. Ma prima forse c’erano ancora parole per descriverla.

“Le parole stanno perdendo il loro significato e non possono più trasmettere quello che avviene,” ha scritto sulla sua pagina Facebook un mio conoscente di Gaza City, Abed Alkarim Ashhour.

Dall’inizio della guerra ha tenuto un diario in cui ha scritto poco di sé e ha cercato di descrivere la situazione intorno a lui con un linguaggio moderato.

“Le immagini non sono sufficienti. I resoconti sono limitati. Le notizie in breve raccontano solo una piccola parte della verità. Per comprendere davvero quello che sta avvenendo devi essere qua, anche solo per qualche ora. Ascoltare il rombo degli aerei sulla tua testa. Tremare per ogni esplosione e soffocare per la polvere densa e il fumo. Solo allora capirai che la sofferenza è più pesante di quanto il linguaggio possa tollerare. Qui a Gaza persino il silenzio grida.”

Due giorni fa un ragazzo e una ragazza sono stati visti in strada sotto la finestra di Fedaa Zeyad che, secondo la sua pagina Facebook, ha studiato letteratura e critica letteraria all’università Al-Azhar. A quanto pare i genitori dei ragazzi avevano chiesto loro di tenere d’occhio le loro cose mentre andavano a cercare un luogo dove sistemarsi per la strada.

Immagino che fossero persone fuggite dalle proprie abitazioni dopo aver ricevuto ordini telefonici registrati dell’esercito che intimavano di andarsene prima che le case venissero bombardate.

[Questa testimonianza di Zeyad, così come quella succitata di Anees Ghanima, è stata tradotta in ebraico da Tamar Goldschmidt e postata sulla sua pagina Facebook, come lei ha fatto con molte decine di post di palestinesi nel corso degli anni.]

Ecco come Zeyad lo racconta, parafrasato dall’originale:

“Mentre spostava i loro averi la madre ha detto: ‘Non preoccuparti, Fatima…’ e il padre a sua volta: ‘Fai il bravo, Hussein, finché non ritorno!’ Volevo allontanarmi dalla finestra, ma temevo che avrebbero avuto paura. Ogni volta che la ragazza diventava inquieta e cercava di vedere se i suoi genitori stavano tornando, il ragazzo le diceva: ‘Stai qui, tra poco bombaranno.’

In strada, sull’altro marciapiede, un’altra famiglia si era sistemata appendendo una tenda di tessuto su un’auto. Si poteva sentire una ragazza gridare: ‘Hai dimenticato le scarpe! Quelle bianche erano dietro la porta della camera da letto.’

‘Adesso vai a dormire e te le porterò domani, se non bombardano,’ ha promesso sua madre. L’aereo è riapparso sulla città rombando terrorizzante sopra il respiro dei due ragazzini, Fatima e Hussein.

Fatima ha chiesto: ‘Ci vorrà molto?’ E Hussein ha risposto: ‘Guarda che bella giornata!’, perché si era alzata una fresca brezza.

Tutti si sono tranquillizzati, salvo che per l’aereo, che rombava terrorizzante accanto alle teste dei ragazzini, alla mia testa, a quella della ragazza in attesa che il giorno dopo non cadessero bombe per non perdere le sue scarpe, alla testa della città che ora giace più vicina al suolo.

L’aereo ha divorato persino la brezza che per breve tempo aveva placato la paura di Fatima.

Questo è il destino di molte famiglie che dopo l’ordine di evacuazione sono uscite alla ricerca di un riparo. In strada.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)