I tormenti di un medico

Alla fine del turno
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Hanan Abukmail

28 giugno 2021 – We Are Not Numbers

Sono passate settimane dalla fine della quarta guerra di Israele contro Gaza. E anche se il mondo è andato avanti, qui a Gaza siamo rimasti a raccogliere i cocci. Ed io? Mi ritrovo a mettere in discussione la mia decisione di fare il medico. Forse è sufficiente leggere una sezione del mio diario per capire perché.

In questi giorni il mio ospedale è pervaso dall’odore del sangue e della morte. Come descriverlo, se non siete mai stati in sua presenza? L’odore è paragonabile al fumo, mi penetra le cellule senza permesso, mi fa sentire debole e nauseata. A volte sono costretta a fuggire in un’altra stanza prima di poter fare ritorno.

Mi rivedo nel 2014, quando ho iniziato il percorso per diventare medico. Quello che è stato il più lungo attacco militare di Israele fu devastante, ma mi ispirò a inseguire il mio sogno d’infanzia di diventare un angelo bianco.

Ed ora eccomi qui sette anni dopo, medico sopravvissuto ad un altro brutale attacco israeliano, a farmi le seguenti domande. Per quanto tempo ancora il mio cuore potrà sopportare di essere testimone dell’uccisione di tutte queste vite? Perché sono nata in questo Paese? Perché ho scelto questa professione?

L’inimmaginabile si ripete

Lo scorso 15 maggio, in piena notte, l’aviazione di Israele ha attaccato un edificio residenziale di proprietà della famiglia di Abu Hatab. L’unico sopravvissuto al genocidio di un’intera famiglia è un bambino di cinque mesi.

Il giorno dopo questa distruzione è iniziata la peggiore notte di bombardamenti. Shimaa’ Abu Alaouf, studentessa ventunenne al terzo anno di odontoiatria, è stata uccisa. Avrebbe dovuto sposarsi il mese dopo con l’uomo che amava, Anas. Probabilmente sognava il giorno della sua festa di laurea, il lavoro di dentista, dei bimbi da crescere in una casa sua. Ma invece la futura sposa, insieme con il suo amore e le sue passioni, è finita sepolta dagli attacchi aerei israeliani che ne hanno distrutto la casa.

I nostri ospedali sono sommersi dall’ingente numero di vittime. L’ospedale di Al-Shifa, che è quello centrale nella Striscia di Gaza, ha una capacità di 250 posti letto soltanto. Tuttavia negli ultimi giorni questa capacità è stata di gran lunga superata. Registriamo una grave carenza nella banca del sangue centrale. Non abbiamo abbastanza posti letto, non abbiamo abbastanza sangue.

Il mio negozio di fiori preferito in via Al-Wehda è stato bombardato. Compravo qui ogni fiore da regalare ai miei cari e lo accompagnavo ad un biglietto che diceva: “Abbi cura di te, caro/a.” Ci andavo spesso, non fosse altro per guardare i fiori. Ora non ci sono fiori da vedere né fiori da regalare né messaggi di affetto da mandare.

Più di dieci famiglie sono state cancellate dal registro dell’anagrafe. Ripeto: oltre dieci intere famiglie non ci sono più.

Prima mi addormentavo presto e non vedevo l’ora di andare al lavoro. Mi imponevo di cancellare i miei pensieri e di aprire il cuore ad ogni passo che facevo. Respirando a pieni polmoni nella luce del mattino, al mio arrivo in ospedale mi sentivo allegra, rinnovata e pronta ad iniziare la giornata.

Ma adesso il rumore del mio pianto è più forte del suono dei razzi che cadono sulla testa del mio popolo.

La paura per i sopravvissuti

Ore dopo, guardo e aspetto mentre le persone vengono estratte dalle macerie. I vivi e i morti aspettano di essere trovati.

La maggior parte delle persone che curo in ospedale quasi non riescono a credere di essere vive. I loro visi sono affranti e sconvolti. Ho paura per i miei pazienti. Ho paura per i superstiti trovati fra le macerie. Ho paura per le loro famiglie. I danni mentali che derivano dal trauma di essere letteralmente sepolti prima di essere alla fine salvati sono enormi: battito cardiaco accelerato, inalazione di polvere e tossine, lacerazioni alla pelle causate dalle schegge e la persistente paura di essere intrappolati senza venire mai trovati. Alcuni dei superstiti si dissanguano lentamente e muoiono a pochi minuti dalla rianimazione. Come affronteranno la situazione i familiari che li stavano aspettando?

Per noi che viviamo sotto l’occupazione di Israele e sotto la minaccia di venire bombardati in qualsiasi momento, il tempo che intercorre fra la vita e la morte è solo questione di minuti.

In continuazione Israele viola i nostri diritti umani e le convenzioni internazionali prendendo di mira civili disarmati e presidi sanitari. Sappiamo che la guerra ritornerà, se non l’anno prossimo, quello successivo o quello ancora dopo. Ho paura e faccio tutto ciò che posso per sopravvivere e servire il mio popolo.

Tuttavia, al di là della mia paura, abbiamo visto e toccato con mano la solidarietà e la speranza da parte di una comunità internazionale di attivisti e altri sostenitori. Questo ci dà la speranza che ci serve per andare avanti e continuare a lottare.

 (traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)