Ahmed Abu Artema
23 febbraio 2022 – Electronic Intifada
Il primo febbraio Amnesty International ha pubblicato un rapporto in cui dichiara Israele un regime di apartheid.
Che i palestinesi vivano nella Striscia di Gaza assediata, a Gerusalemme Est e nel resto della Cisgiordania occupata o in Israele, Israele li tratta come un gruppo razziale inferiore e li priva dei loro diritti.
Il rapporto definisce la regione del Naqab meridionale (Negev) un “ottimo esempio” delle pluriennali politiche israeliane per appropriarsi di terre e risorse palestinesi a vantaggio degli ebrei israeliani.
Durante le settimane precedenti la pubblicazione del rapporto di Amnesty i beduini palestinesi nel Naqab hanno respinto rinnovati tentativi israeliani di espropriare vasti appezzamenti di terra con la scusa del “rimboschimento.”
Il mese scorso l’esercito israeliano è intervenuto pesantemente contro i manifestanti sparando pallottole di acciaio rivestite di gomma e lanciando lacrimogeni dai droni. I palestinesi feriti sono stati decine e pare che le autorità israeliane abbiano fermato oltre 80 persone.
Secondo Haaretz la polizia israeliana ha anche lanciato pallottole di acciaio con punta in spugna contro i manifestanti, ferendone cinque alla testa.
Un ragazzino palestinese che assisteva alle proteste ha perso un occhio dopo essere stato colpito dalla polizia israeliana.
Secondo Al Jazeera il Jewish National Fund [Fondo Nazionale Ebraico, ente no profit dell’Organizzazione Sionista Mondiale, ndtr.] e l’Israel Land Authority [Autorità Israeliana per la terra, ndtr.] stanno cercando di espropriare più di 11.000 ettari di terreni palestinesi per piantare alberi.
Ma i beduini palestinesi sanno che Israele usa da molto tempo il “rimboschimento” per impadronirsi di terre nel Naqab e altrove e per nascondere monumenti e rovine di villaggi palestinesi dopo averli distrutti e attuato la pulizia etnica.
È un metodo tipico di Israele per cancellare tutte le tracce dei suoi crimini.
Ebraizzare il Naqab
Fin dal 1948 Israele ha adottato varie politiche per “ebraizzare” il Naqab, soprattutto destinando vaste aree intorno ai villaggi beduini a riserve naturali, zone industriali e per esercitazioni militari, come notato da Amnesty.
Israele ha radunato gli abitanti beduini e li ha trasferiti con la forza in quelle che chiama “città pianificate” con conseguenze devastanti per coloro che vivono nella zona.
Nel Naqab Israele si rifiuta ancora di riconoscere 35 villaggi beduini, che di conseguenza sono privi di luce e acqua e destinati alla demolizione, sostiene Amnesty.
A dicembre le autorità israeliane di occupazione hanno demolito il villaggio beduino di al-Araqib nel nord del deserto di Naqab quasi per la duecentesima volta dal 2000.
I palestinesi l’hanno ripetutamente ricostruito solo per subirne di nuovo la demolizione con il pretesto che non è riconosciuto.
Rifiutando di concedere ai villaggi uno status ufficiale Israele limita la partecipazione politica degli abitanti beduini e li esclude dall’assistenza sanitaria e dal sistema scolastico. Ciò intende costringerli a lasciare le proprie case e villaggi, il che equivale al trasferimento coatto.
Secondo Human Rights Watch [notissima Ong per i diritti umani con sede negli USA, ndtr.] fra il 2013 e il 2019 Israele ha demolito nel Naqab più di 10.000 case.
Nel 2013 la Knesset, il parlamento israeliano, ha approvato il cosiddetto Prawer Plan, studiato per trasferire con la forza gli abitanti di decine di villaggi palestinesi del Naqab e concentrarli in una zona segregata.
Secondo questa legge Israele trasferirà in modo coatto 70.000 beduini e i 35 villaggi non riconosciuti saranno demoliti.
Per ora le proteste popolari e la condanna di molte organizzazioni internazionali hanno costretto il governo di Israele a sospendere l’implementazione del piano.
Questi progetti sono progettati per cacciare i palestinesi dalla regione e rimpiazzarli con ebrei israeliani.
Naqab come continuazione della Nakba
Sin dalla sua fondazione nel 1948 sulle rovine di città e villaggi palestinesi, l’obiettivo strategico coloniale di Israele è il furto di terre palestinesi e il trasferimento forzato della sua popolazione nativa.
Dall’estremo nord della Galilea al sud del Naqab e ovunque nella Cisgiordania occupata, inclusa Gerusalemme Est, Israele continua a perseguire questo obiettivo.
Mentre il mese scorso, in una notte fredda e piovosa, l’esercito israeliano attaccava i manifestanti nel Naqab, i bulldozer demolivano la casa della famiglia Salhiya nel quartiere di Sheikh Jarrah, nella Gerusalemme Est occupata, lasciando la famiglia senza un tetto.
Gli abitanti del Naqab riconoscono il significato nazionale della loro causa. Le loro sofferenze sono le stesse subite dall’intero popolo palestinese.
Qualcuno ha chiamato la violenta repressione israeliana e il trasferimento coatto dei palestinesi del Naqab una versione in scala ridotta della Nakba, la pulizia etnica di circa 800.000 palestinesi per far posto a Israele nel 1948.
Il mese scorso Aden Hajjouj, attivista palestinese nel Naqab, ha detto ai media con ardore rivoluzionario: “Ci trattano come rifugiati nella nostra terra”.
“Questa non è la loro terra, è la nostra. Siamo qui da prima del 1948, prima che Israele diventasse Israele.”
Identità nazionale collettiva
La definizione di apartheid di Amnesty segue quelle dell’anno scorso di B’Tselem, associazione israeliana per i diritti umani, e di Human Rights Watch.
Questi rapporti allarmano Israele perché minano la falsa immagine che cerca di presentare al mondo.
La designazione di Israele quale Stato di apartheid sposta l’attenzione da una visione limitata del conflitto nella Cisgiordania occupata e Gaza a considerare il problema come vera essenza di Israele.
Come scrive Amnesty nel suo rapporto: “Dalla sua istituzione nel 1948 Israele ha perseguito una chiara politica per stabilire e mantenere un’egemonia demografica ebraica e massimizzare il suo controllo sulla terra per avvantaggiare gli ebrei israeliani e così minimizzare il numero dei palestinesi, limitare i loro diritti e ostacolare la loro capacità di sfidare questa spoliazione.”
I palestinesi respingono uno Stato razzista
Fin dalla sua fondazione Israele ha cercato di separare il popolo palestinese e frammentarne l’identità nazionale. I cittadini palestinesi di Israele sono quelli sopravvissuti alla Nakba del 1948 e i loro discendenti che riuscirono a restare in quello che è poi diventato Israele.
A seconda di dove si trovavano geograficamente Israele ha classificato i palestinesi con una gerarchia di identificazioni con implicazioni politiche, di sicurezza e giuridiche.
Questa separazione fu imposta dopo la firma degli accordi di Oslo fra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina a metà degli anni ’90.
Sebbene gli strumenti repressivi di Israele differiscano a seconda della classificazione giuridica e geografica dei palestinesi, l’essenza della repressione è la stessa: espulsioni, trasferimenti e discriminazione razziale contro i palestinesi.
Israele sperava che tali divisioni avrebbero portato a una frattura nella coscienza nazionale palestinese contro il colonialismo.
Il governo israeliano non ha mai cercato di integrare i propri cittadini palestinesi, che costituiscono il 20% della popolazione del Paese. Sebbene questi palestinesi siano ufficialmente considerati cittadini israeliani, Israele li sottopone a una persecuzione etnica e religiosa.
Successivi governi israeliani hanno approvato decine di leggi su terre, abitazioni, costruzioni, istruzione e lavoro. Queste leggi discriminano i cittadini palestinesi di Israele, li privano dei loro diritti civili, ne confiscano le terre e restringono il loro spazio pubblico.
La sistematica discriminazione razziale israeliana contro i palestinesi nel vasto territorio occupato nel 1948 ha contribuito alla crescita del patriottismo palestinese.
In parte soppresso per decenni nell’Israele odierno, esso è riapparso nel maggio 2021 quando i palestinesi hanno protestato diffusamente contro l’assalto militare israeliano contro Gaza e gli abusi di Israele a Sheikh Jarrah [quartiere palestinese di Gerusalemme est dove Israele sta cercando di cacciare gli abitanti, ndtr.].
Come dichiara Amnesty International nella sintesi del rapporto sull’apartheid: “In una dimostrazione di unità mai vista in decenni, ([i palestinesi) hanno sfidato la frammentazione e segregazione territoriale che affrontano nella loro vita quotidiana e hanno partecipato a uno sciopero generale per protestare contro la loro comune repressione da parte di Israele.”
Questa unità, dal Naqab nel sud della Galilea al nord, da Gaza alla Cisgiordania, è essenziale per allontanarsi dal modello fallito dei due Stati che non garantisce tutti i diritti dei palestinesi, e li sprona verso un’azione per uno Stato che difenda principi chiave come parità di diritti e il diritto al ritorno [dei profughi].
Ahmed Abu Artema, scrittore palestinese e attivista, è un rifugiato di Ramle [città palestinese in cui nel 1948 ci furono massicce espulsioni e che ora si trova in Israele, ndtr.].
(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)