Noa Landau
16 ottobre 2024 – Haaretz
Si suppone che viviamo in un luogo e un tempo in cui la maggior parte delle informazioni importanti per la nostra vita siano pubbliche e accessibili. I mezzi di comunicazione in Israele sono liberi di raccontare (con l’eccezione di specifiche restrizioni censorie), chiunque può connettersi a internet e il governo non limita l’accesso alle reti sociali.
Tuttavia pare esserci un’enorme distanza nelle informazioni, e di conseguenza anche nella consapevolezza, tra gli israeliani e il resto del mondo quando si tratta della guerra in Medio Oriente. Un esempio recente di ciò è l’attacco aereo delle Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndt.] di lunedì nei pressi dell’ospedale Martiri di Al-Aqsa a Deir al-Balah, nella zona centrale della Striscia di Gaza. Mentre gli utenti di internet in tutto il mondo potevano vedere gli orribili video del fuoco che l’attacco ha appiccato in una tendopoli per le persone sfollate dalla guerra, è probabile che in Israele persino oggi solo poche persone siano al corrente dell’incidente.
Secondo le informazioni almeno quattro persone sono state uccise, incluse una donna e un bambino, e almeno 43 ferite nell’incidente. Rispetto all’irragionevole livello di sofferenza e sangue che proviamo ogni giorno questo non è un evento “eccezionale”. Eppure ha suscitato una risposta relativamente dura del governo USA, che ha persino depositato un’esplicita protesta a Israele. Non è sicuro che molti israeliani abbiano neppure sentito parlare della protesta, ma quelli che l’hanno fatto devono aver faticato a capirla.
La spiegazione dell’inusuale condanna sta negli stessi video, che mostrano – non c’è, né ci dovrebbe essere, un modo migliore per dirlo– persone bruciate vive. “Le immagini e i video di quello che sembra essere gente sfollata bruciata viva in seguito a un attacco aereo israeliano è profondamente sconvolgente,” ha affermato lunedì sera in un comunicato un portavoce del Consiglio della Sicurezza Nazionale USA.
La maggior parte delle persone che hanno visto tali immagini, indipendentemente dalle loro opinioni politiche, faticherà ad accettare come giustificazione dichiarazioni riguardo a un “attacco mirato contro terroristi che stavano operando all’interno di un centro di comando e di controllo”. Anche le fredde spiegazioni del tipo “è la guerra” sono insoddisfacenti.
Allora, senza leggere o ascoltare almeno una descrizione orale dei video, è difficile comprendere la reazione internazionale a questo incidente e la posizione prevalente riguardo alla guerra. Ma, benché non ci siano limitazioni ufficiali sui media o sulle reti sociali che impediscano agli israeliani la visione dell’incidente, la sua copertura giornalistica è stata rappresentata da qualche sintetico articolo sui siti web, centrati per lo più sulla reazione degli USA.
La cosa più facile da fare a questo proposito è incolpare i media israeliani per non aver fatto il loro lavoro. In un editoriale Ido David Cohen conclude che le vittime di Gaza sono diventate invisibili, la maggior parte dei giornalisti israeliani è rappresentata da portavoce dell’esercito israeliano, il discorso è dominato dall’estremismo e arabi e palestinesi sono esclusi dagli studi radiofonici e televisivi.
Non è una novità, ma come in altri campi della vita questa tendenza è diventata più estrema e così lo sono l’autocensura per ragioni “patriottiche” e le censure commerciali, queste ultime per non perdere spettatori e annunci pubblicitari.
La scorsa settimana in un’intervista con Christiane Amanpour trasmessa sulla CNN il 3 ottobre la giornalista investigativa israeliana Ilana Dayan ha affermato che i media israeliani “non stanno informando abbastanza” sulla “tragedia a Gaza”. Ha ragione. La destra la attacca aggressivamente per questo, in modo vergognoso, ma bisogna anche chiederle: Ilana, che cosa ha impedito a te di informare su di essa?
L’autocensura dei media israeliani non è l’unica spiegazione. Non solo gli israeliani sono emotivamente immersi soprattutto nella loro ansia e nelle loro enormi sfide, ma c’è anche l’algoritmo delle reti sociali, che isola il mondo di ognuno in modo che sia esposto solo a quello che l’algoritmo determina in anticipo che gli possa piacere.
In un mondo che si presume sia più che mai aperto, siamo intrappolati in bolle chiuse come mai prima d’ora. E proprio come l’attuale erosione dei valori democratici non è operata dai carrarmati nelle strade ma piuttosto da dirigenti che vengono eletti, la disconnessione dal flusso di informazioni e il controllo della consapevolezza non vengono necessariamente realizzati attraverso la censura ufficiale, ma piuttosto da forze volontarie e invisibili.
(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)