A Gaza non si sfugge al terrore

Le macerie al 19 novembre 2024 prodotte dai bombardamenti israeliani a Khan Younis. Foto: OMAR ASHTAWY / APA IMAGES)
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Ahmed Mohammed Jnena  

24 novembre 2024 Mondoweiss

Quando a Gaza è iniziato il genocidio ho confidato in Dio e respinto del tutto la paura. Ma poi, intrappolato sotto le macerie della mia casa distrutta, ho provato un’autentica paura. E da allora non mi ha più abbandonato.

La guerra incalzava. Le bombe cadevano senza sosta, più rumorose e pesanti che mai. Per me non era una novità. Il mio quartiere, al-Shuja’iyya, è stato bombardato innumerevoli volte: 2008, 2012, 2014, 2021, e tra queste c’erano attacchi aerei periodici e lunatici, imprevedibili ma familiari. Questa era la vita a Gaza, che è stata un ciclo infinito di sopravvivenza e ricostruzione. Quindi, quando i primi attacchi aerei seguirono il 7 ottobre, pensai che fosse solo un capitolo della stessa triste storia. Mi sbagliavo.

Il numero dei morti salito a diverse migliaia, gli attacchi aerei implacabili… Il numero di sigarette di mio padre aumentava di giorno in giorno. A Gaza le sigarette non sono un lusso, sono una forma di silenziosa autopunizione o un disperato tentativo di alleviare lo stress. I fattori di stress sono ovunque, anche prima che scoppiasse la guerra. Sapevo che presto i prezzi delle sigarette sarebbero saliti alle stelle, un altro crudele paradosso nelle nostre vite.

Sono Ahmed, ho 23 anni e faccio parte di una famiglia di nove persone. Due dei miei fratelli vivono all’estero: uno è insegnante in Kuwait e ci sostiene economicamente, l’altro è in Turchia e sta cercando di emigrare in Europa per provvedere alla moglie e ai due figli. Una settimana dopo il 7 ottobre mia madre, mia sorella e quattro dei miei fratelli sono stati evacuati nella scuola UNRWA di Al-Rimal, nella parte occidentale di Gaza City. Mio padre, 64 anni, e io siamo rimasti indietro: “i lealisti”, come dicevamo scherzando.

Mio padre non aveva paura della morte. L’accettava con calma rassegnazione, a volte trovando conforto nella sua ineluttabilità. Io, d’altro canto, credevo di poter respingere del tutto la paura riponendo la mia fiducia in Dio. “La paura è un’illusione”, gli dissi una sera. Scosse la testa, la voce ferma.

“La paura è reale, figlio mio”, disse. “Anche i profeti avevano paura. Ricordi Mosè quando gli fu detto di tenere il bastone? La paura esiste tanto quanto il coraggio”.

Allora non ne ero convinto. Ma l’8 novembre ho scoperto la verità sulla paura.

Un F-16 israeliano ha ridotto la nostra casa in macerie in pochi secondi. Ero intrappolato tra due muri crollati, bloccato sul posto dal cemento implacabile. Per due strazianti ore sono rimasto solo in una soffocante oscurità, ascoltando i deboli scricchiolii della distruzione e le grida lontane. La paura mi ha afferrato, cruda e ineluttabile.

Poi l’ho sentito. La voce di mio padre mi chiamava da qualche parte tra le macerie. Era stato colpito dallo stesso attacco aereo ma mi stava cercando tra le rovine. Le sue mani, ferme nonostante il caos, mi guidarono tra le macerie dall’altra parte del muro. Quella fu l’ultima cosa che ricordo chiaramente prima che il secondo attacco aereo ne stroncasse la voce e lo uccidesse. Il mio coraggioso padre se n’era andato.

Quando fui tirato fuori dalle macerie avevo il bacino e parte della spina dorsale rotti. Quando arrivò l’ambulanza fui portato d’urgenza all’ospedale di al-Shifa. Rimasi lì per settimane a ricevere cure prima che l’esercito israeliano circondasse l’ospedale e bombardasse proprio il piano in cui mi trovavo. La morte insisteva nel seguirmi come un’ombra. Non appena l’esercito circondò l’ospedale fui trasferito con altri pazienti e dottori all’Ospedale Europeo di Khan Younis.

La mia spina dorsale e il mio bacino necessitavano di un intervento chirurgico e l’ospedale in cui mi trovavo a malapena funzionava, veniva usato principalmente come rifugio. Alla fine il Ministero della Salute rilasciò un’impegnativa che mi avrebbe consentito di essere curato in Egitto, cosa non facile da ottenere poiché si dà la priorità ai casi più gravi. Però non ha funzionato. Anche se mio fratello poteva garantire i fondi per il mio viaggio in Egitto, gli israeliani hanno presto preso il controllo del valico di Rafah e lo hanno chiuso, mettendo le cure fuori discussione.

Dovevo perseverare in questa lotta senza fine, non avevo scelta. Un doloroso passo dopo l’altro, la mia salute è migliorata e alla fine riesco a camminare. Ora vendo sapone fatto in casa per le strade di Deir al-Balah per sostenere mia madre, i miei fratelli e mia sorella, ma anche perché non ho altra scelta.

Penso che nonostante tutte queste difficoltà posso ancora farcela. Abbiamo sempre lottato a Gaza prima del 7 ottobre. Ma ciò che non riesco a gestire è la profonda paura che mi ha sconvolto quella notte.

Da quella notte la paura non mi ha più abbandonato. I miei ricordi prima dell’attacco sembrano frammenti di un sogno, sfocati e irraggiungibili. Non ricordo molto della mia vita prima di allora. Forse se tornassimo alle macerie, ai resti della nostra casa, qualche oggetto dimenticato potrebbe scatenare un ricordo. Per ora, però, vivo nel presente, portando il peso di un passato che non riesco a ricordare e una paura che non posso negare.

La paura esiste. È reale. Mio padre ha ragione. Ora ho capito.

.(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)