Settant’anni e una brutta storia

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Vercelli C., Israele 70 anni. Nascita di una Nazione, Edizioni del Capricorno, Torino, 2018, 12,90 €.

Amedeo Rossi

Questo libro merita una recensione solo per una ragione: è una chiara dimostrazione del perché non sia possibile instaurare un dibattito serio neppure con i filo-israeliani di “sinistra” (Vercelli, autore di vari libri su Israele, è un collaboratore de “Il Manifesto”).

Il sottotitolo fa riferimento, in modo involontariamente ironico, ad un famoso film americano del 1915, “The born of a Nation”, un capolavoro del cinema ma anche un’esaltazione del razzismo. Non è certo la nota predominante del libro, che in quarta di copertina viene definito “una ricostruzione puntuale e obiettiva”, ma neppure questa è la descrizione corretta di questo lavoro.

Il punto di vista dell’autore viene chiarito in primo luogo dall’uso del lessico: i problemi con i palestinesi sono definiti “frizioni”, questi ultimi in genere indicati genericamente come “arabi” o “arabo musulmani”, la pulizia etnica del ’48 “fuga”, la Cisgiordania sarebbe “Giudea e Samaria”, le colonie israeliane sono definite “insediamenti”, “stanziamenti”, in un caso (Gilo) “quartiere”.

Vercelli assume, senza renderlo mai esplicito, esclusivamente il punto di vista sionista e israeliano, facendo eco a tutti i luoghi comuni ormai smentiti dalla storiografia. Dei nuovi storici israeliani in bibliografia compaiono solo Tom Segev e il libro di Benny Morris “Vittime”, di cui però non cita i passaggi che mettono in dubbio la lettura degli avvenimenti dal punto di vista israeliano.

Ecco alcuni degli esempi più evidenti a un lettore informato di questa posizione dell’autore.

Secondo Vercelli “l’ostilità delle popolazioni arabe” verso i sionisti era dovuta al fatto che queste ne vedevano la presenza “come una crescente intrusione che, in prospettiva, poteva portare all’espropriazione delle terre e alla limitazione delle possibilità di lavoro.” Inoltre sarebbe stato particolarmente ostile “il ceto medio urbano” che “dovette confrontarsi con la concorrenza ebraica in campo commerciale, artigianale e della piccola industria.” L’autore liquida così quello che fu un tipico processo colonialista di espulsione dei contadini e di creazione di un mercato della terra in un contesto di economia agraria tradizionale, che determinò un aumento vertiginoso dei prezzi, una crisi dell’agricoltura, l’inurbamento dei coltivatori espulsi dalle campagne, la creazione di un‘ economia e di un mercato paralleli che escludevano la popolazione nativa, come aveva preconizzato lo stesso Herzl, padre del sionismo. Tutto ciò grazie anche al favore del potere mandatario inglese, che nel libro invece non viene evidenziato.

Negli anni ’30 i flussi dell’immigrazione ebraica in Palestina sarebbero stati incentivati dalla chiusura delle frontiere USA, ma anche in questo caso viene ignorato l’intervento dei dirigenti sionisti che si attivarono per promuovere questa chiusura. In merito Enzo Sereni, dirigente sionista, affermò: “Non abbiamo nulla di cui vergognarci nel fatto che abbiamo usato la persecuzione degli ebrei in Germania per l’edificazione della Palestina.” Di questo non c’è traccia nella ricostruzione qui proposta.

Altrettanto avviene riguardo alle tattiche terroristiche messe in atto da tutte le milizie sioniste, a cui Vercelli dedica solo un accenno ed una foto dell’esplosione dell’hotel King David, ma la didascalia non dice che ci furono 97 morti e 58 feriti. Vengono totalmente ignorate le centinaia di vittime arabe di attacchi terroristici sionisti, oppure l’uccisione del mediatore Onu conte Bernadotte, e il fatto che alcuni primi ministri israeliani, come Begin, Shamir e Rabin, erano stati capi o militanti di gruppi che praticavano il terrorismo indiscriminato contro i civili.

Ancora più grave è la versione accolta nel libro riguardo alla guerra del ’48, da cui è nato lo Stato di Israele. Ad esempio la questione dell’espulsione dei palestinesi dalla loro terra viene così spiegata : i profughi sarebbero stati “popolazioni civili coinvolte nei combattimenti e fuggite dai loro luoghi di residenza.” Inoltre, secondo Vercelli, questo esodo sarebbe stato incentivato dalla “propaganda dei paesi arabi… che garantivano una vittoria certa sugli ebrei”. “Nondimeno,” concede l’autore, “da parte sionista l’interesse ad avere territori abitati in grande maggioranza da popolazione ebraica era nell’ordine delle cose.” Viene liquidato in questo modo il processo di pulizia etnica e con esso il lavoro degli studiosi palestinesi e dei nuovi storici israeliani, compreso il già citato Benny Morris. Certo, dal punto di vista sionista ciò era “nell’ordine delle cose” per la semplice ragione, non menzionata nel testo, che anche nei territori destinati dal piano di spartizione dell’ONU al futuro Stato di Israele la maggioranza della popolazione era araba. Vercelli cita solo la strage di Deir Yassin, troppo nota per essere ignorata, ma non le decine di massacri perpetrati dalle milizie sioniste e le centinaia di villaggi distrutti durante la guerra. Ma definisce la cacciata degli ebrei dai Paesi arabi “un brutale meccanismo di ritorsione” e “una massiccia espulsione.”

A questo proposito, pur dedicando alcune analisi interessanti alle caratteristiche della società ebreo-israeliana, il libro ignora i molti episodi di discriminazione di carattere tipicamente eurocentrico e colonialista cui furono sottoposti gli ebrei arabi, dal rapimento di bambini di famiglie yemenite all’ emarginazione territoriale nelle zone di confine. Nel 1949 comparve su Haaretz, giornale progressista, un articolo in cui si affermava che gli ebrei di lingua araba: “Sono appena meglio del livello di arabi, negri e berberi della regione.” Un’immagine molto diversa da quella di una società felicemente multietnica, dinamica, che presterebbe “particolare riguardo ai diritti civili.” Basti pensare al trattamento riservato in Israele ai lavoratori immigrati, ai richiedenti asilo, in generale ai non ebrei. Vercelli ignora anche la condizione di inferiorità giuridica a cui sono soggetti i cittadini arabo-israeliani, sottoposti all’amministrazione militare fino al 1966, espropriati delle terre e discriminati da più di 50 leggi e regolamenti, definiti sbrigativamente nel libro “diversi vincoli e numerose limitazioni” che avrebbero provocato “un misto di diffidenza ed estraneità”. Gli “attriti” con gli “arabo musulmani” (ma ci sono anche gli “arabo-cristiani”) avrebbero determinato in “alcuni arabi” il senso di appartenenza “a quell’identità palestinese” maturata nei campi profughi “come nei Territori a maggioranza palestinese, a est e a sud di Israele”.

Grazie alla guerra dei Sei Giorni e alla conseguente occupazione della Cisgiordania e di Gaza, da cui altre centinaia di migliaia di palestinesi secondo il libro sarebbero “fuggite”, “la nozione di spazio [degli ebrei israeliani]…si svincolò dalle dimensioni asfittiche legate a una piccola porzione di territorio quale era lo Stato del 1948.”

Il libro non accenna neppure al metodico, pianificato e progressivo processo di espropriazione ed oppressione imposto alle comunità locali dai vari governi israeliani, rispetto alla quale i palestinesi manifesterebbero una “crescente indisponibilità”, non dovuta a fatti concreti ed oggettivi ma al “senso di discriminazione”. Allo stesso modo il libro minimizza, parlando di qualche centinaio di vittime, le responsabilità (riconosciute persino da un’inchiesta parlamentare israeliana) dell’esercito e dell’allora ministro della Difesa Sharon nella strage di Sabra e Shatila durante la guerra contro il Libano; la Prima Intifada sarebbe scoppiata perché “[I giovani palestinesi] si sentivano vittime di un’ingiustizia,”; la Seconda dalla “disillusione” e dal “malessere della popolazione palestinese”, che portarono ad una radicalizzazione, attribuita al successo dei gruppi islamisti, senza spiegarne le cause. Sensazioni, opinioni, emozioni soggettive. Quanto infine al fatto che nel nuovo contesto mediorientale “Israele non può dare risposte di merito ai problemi degli altri paesi della regione, ma si confronta, inevitabilmente, con gli effetti prodotti dalla loro persistenza,” andrebbe chiesto conto all’autore degli sviluppi diplomatici che vedono Israele allineato sempre più esplicitamente con i peggiori regimi arabi.

 Si potrebbe proseguire, ma credo che quanto scritto finora dia sufficientemente conto del tenore di questo libro. Si tratta di un’opera celebrativa (come testimonia il notevole apparato iconografico) ed elogiativa che esalta l’impresa sionista con un approccio solo apparentemente neutrale, la cui lettura è utile più per analizzare l’ideologia dell’autore e dei suoi sodali filo-israeliani che per il suo valore storiografico.

 

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