Ramzy Baroud
28 agosto 2020 – Middle East Monitor
Il 16 agosto la marina israeliana ha dichiarato zona militare chiusa il mare di Gaza. Il giorno dopo un gruppo di pescatori di Gaza ha deciso di cercare di pescare a meno di due o tre miglia nautiche dalla costa di Gaza. Appena gettate le reti attorno a loro hanno iniziato a fischiare le pallottole della marina israeliana.
Poco dopo l’incidente ho parlato con uno dei pescatori. Il suo nome è Fathi.
“Mia moglie, i miei otto figli ed io, tutti viviamo della pesca. La marina israeliana oggi ci ha sparato e ci ha chiesto di lasciare il mare. Ho dovuto tornare dalla mia famiglia a mani vuote, senza pesce da vendere e senza niente da dare ai miei figli,” dice Fathi.
La storia di questo pescatore è tipica. Secondo l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem “circa il 95% dei pescatori di Gaza vive al di sotto del livello di povertà.”
I pescatori di Gaza sono dei veri eroi. Contro ogni previsione, per assicurare la sopravvivenza delle loro famiglie ogni giorno affrontano il mare.
In questo contesto la marina israeliana equivale agli odierni pirati, apre il fuoco contro questi uomini – e in qualche caso donne – palestinesi, a volte affondando le barche e riportandole sulla costa. A Gaza da quasi 13 anni questa è stata la routine.
Appena Israele ha dichiarato la chiusura completa della zona di pesca di Gaza, ha impedito a migliaia di pescatori di poter mantenere le loro famiglie, distruggendo così un ulteriore settore della falcidiata economia di Gaza.
L’esercito israeliano ha giustificato la sua azione come una rappresaglia contro i manifestanti palestinesi che, a quanto è stato affermato, negli ultimi giorni hanno lanciato palloni incendiari contro Israele. Quindi, in base alle carenti regole dei principali giornali, la decisione israeliana può sembrare razionale. Tuttavia una semplice verifica sull’argomento rivela tutt’altra storia.
Di fatto i manifestanti palestinesi hanno lanciato contro Israele palloni incendiari che, a quanto si dice, provocano incendi in alcune zone agricole nei pressi di Gaza occupata. Tuttavia l’azione in sé è stata una disperata richiesta di attenzione.
Gaza è quasi priva di carburante. L’unico generatore di energia della Striscia è stato spento ufficialmente il 18 agosto. Anche il valico di Karem Abu Salem, che consente che approvvigionamenti appena sufficienti arrivino a Gaza attraverso Israele, è stato chiuso per un ordine militare israeliano. Il mare, l’ultima risorsa di Gaza, è diventato di recente una guerra unilaterale tra la marina israeliana e la sempre più ridotta popolazione di pescatori di Gaza. Tutto ciò ha inflitto gravi danni a una zona che ha già dovuto patire terribili sofferenze.
Una volta florido, il settore della pesca a Gaza è stato quasi distrutto in seguito all’assedio israeliano. Nel 2000, per esempio, l’industria ittica di Gaza contava più di 10.000 pescatori. Gradualmente il loro numero si è ridotto a 3.700, benché molti di essi siano pescatori solo di nome, dato che non possono più uscire in mare, riparare le proprie imbarcazioni danneggiate o permettersene di nuove.
Quelli che continuano a praticare la professione lo fanno perché è, letteralmente, il loro ultimo mezzo di sopravvivenza: se non pescano, le loro famiglie non mangiano. La storia dei pescatori gazawi è anche la storia dell’assedio di Gaza. Nessun’altra professione è stata così direttamente legata ai mali di Gaza quanto la pesca.
Quando nel 1993 vennero firmati gli accordi di Oslo tra il governo israeliano e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, si disse ai palestinesi che uno dei molti frutti della pace sarebbe stato l’allargamento della zona peschiera di Gaza, esattamente fino a 20 miglia nautiche (circa 37 km).
Come il resto delle promesse non rispettate di Oslo, neppure l’accordo sulla pesca venne mantenuto. Invece fino al 2006 l’esercito israeliano consentì agli abitanti di Gaza di pescare all’interno di una zona che non ha mai superato le 12 miglia nautiche. Nel 2007, quando Israele impose l’attuale assedio contro Gaza, la zona di pesca venne ulteriormente ridotta, prima a sei miglia nautiche e, infine, a tre.
Dopo ogni guerra israeliana o scontro violento a Gaza la zona di pesca viene completamente chiusa. Viene riaperta dopo ogni tregua, insieme ad altre vuote promesse che la zona di pesca verrà estesa a varie miglia nautiche per migliorare i mezzi di sussistenza dei pescatori.
Dopo la tregua negoziata dall’Egitto, che ha fatto seguito a una breve ma letale campagna israeliana nel novembre 2019, la zona di pesca è stata di nuovo estesa fino ad arrivare a 15 miglia nautiche, la maggior estensione da molti anni.
Tuttavia questa tregua è stata di breve durata. Poco tempo dopo la marina israeliana si è messa ad affondare barche, sparando ai pescatori e respingendoli indietro nei ridotti spazi originari nei quali operavano.
Benché nel 2005 Israele abbia ritirato le proprie forze fuori da Gaza, in base al diritto internazionale continua ad essere considerato una potenza occupante, obbligata a garantire il benessere e i diritti dei palestinesi occupati che vi abitano. Ovviamente Israele non ha mai rispettato il diritto internazionale, né a Gaza né in nessun altro luogo della Palestina occupata.
Nel febbraio 2018 Isma’il Abu Ryalah è stato assassinato dalla marina israeliana mentre pescava con la sua piccola imbarcazione a cinque miglia nautiche dalla costa di Gaza. Come era immaginabile, nessun israeliano è stato considerato responsabile per l’assassinio di Abu Ryalah. Poco dopo l’incidente, la disperazione, ma anche il coraggio, hanno fatto sì che migliaia di pescatori di Gaza ritornassero in mare, nonostante il pericolo immediato che rappresentavano i pirati di oggi che si fanno passare per un esercito.
Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.
(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)