“Alla polizia non importa”: la violenza armata travolge la comunità araba israeliana

Aisha Hujayrat madre del bambino Ammar di tre anni ucciso da una pallottola vagante mentre giocava nel cortile. Foto di Quique Kierszenbaum
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Bethan McKernan e Quique Kierszenbaum a Bir al-Maksur

21 febbraio 2022 – The Guardian

Il numero dei palestinesi uccisi cresce di anno in anno mentre le armi rubate all’esercito israeliano proliferano nelle strade

C’è una pausa nella pioggia e il sole splende sugli aranceti di Bir al-Maksur, un tranquillo villaggio beduino vicino a Nazareth, nel nord di Israele.

Ad Ammar, tre anni, sarebbe piaciuto giocare nelle pozzanghere dopo l’acquazzone invernale davanti alla casa della famiglia Hujarat, dice sua zia. Ma due giorni fa il bambino è stato ucciso in un parco giochi da una pallottola vagante sparata durante un inseguimento fra auto e la famiglia in lutto sta cercando di dare un senso al modo in cui la sua vita è finita.

Alla polizia non importa quello che succede ai palestinesi, così (le gang) sanno che possono uccidere dei bambini che giocano e non succederà niente. Siamo così arrabbiati,” dice Imam, il cugino di Ammar, seduta vicino ad Aisha, la mamma del piccolo. Ancora stordita dallo shock, Aisha incrocia le mani in grembo, gli occhi arrossati dal pianto.

Ammar è la prima vittima del 2022 della violenza armata che sta travolgendo la comunità araba in Israele: l’anno scorso 127 persone, un record, hanno perso la vita e dal 2013 i numeri salgono di anno in anno. Al tempo stesso proliferano le armi illegali nelle strade. Alcuni stimano centinaia di migliaia di armi, quasi tutte rubate da depositi militari israeliani o contrabbandate dalla Giordania.

La violenza delle bande fa sì che i due milioni della minoranza araba in Israele abbiano più probabilità di essere uccisi da connazionali arabi che i palestinesi in Cisgiordania lo siano dalle forze di sicurezza israeliane. A oggi l’assunto prevalente nella polizia, secondo un alto funzionario israeliano, si può riassumere così: “Fino a quando si ammazzano fra di loro, è un problema loro.”

Dei 9 milioni della popolazione israeliana, circa il 20% si identifica come arabo, inclusi beduini, drusi e palestinesi musulmani e cristiani. In teoria a loro sono garantiti gli stessi diritti civili e politici dei cittadini ebrei; in pratica queste comunità subiscono gravi discriminazioni istituzionalizzate.

Nei quartieri arabi ed etnicamente misti del Paese la crisi della violenza armata è una cupa dimostrazione dei problemi che devono affrontare le minoranze che vivono nello Stato ebraico.

Le reti del crimine organizzato sono profondamente radicate nella società araba che si rivolge ai boss mafiosi per dei prestiti quando le banche israeliane respingono le loro richieste. Corruzione ed estorsioni nella politica locale sono diffuse come i racket della protezione.

La comunità non si fida e teme la polizia, il che porta i cittadini palestinesi di Israele a rivolgersi per risolvere dispute ai metodi tradizionali come la sulha, un meccanismo di soluzione dei conflitti, in questo contesto di solito fra clan o famiglie rivali.

Ma con i giovani arabi, i più colpiti dalla crisi della disoccupazione causata dal Covid-19, le strade sono ora piene di manovali ben armati desiderosi di portare a segno attacchi per i loro boss o, per il giusto prezzo, di eseguire vendette su commissione. Il risultato sta lacerando il tessuto sociale che sostiene queste comunità marginalizzate.

Nel mese scorso il Guardian ha incontrato nella centrale Lod [Lydd in arabo] e in altre città nel “triangolo arabo” di Israele più di una decina di persone che hanno perso persone care innocenti a causa del crimine armato.

Nell’agosto del 2020 a Rambla Sharifa, moglie di Mohamed Abu Muamar e amata insegnante del posto, è stata uccisa sotto il fuoco incrociato mentre stava al lavandino in cucina nell’appartamento della famiglia al secondo piano. L’hanno trovata morta dopo che il figlio di due anni della coppia ha cercato di svegliarla. “Non posso lavorare, sono in difficoltà con i bambini. Adesso non riesco neppure a ritornare nell’alloggio,” dice il marito. “È troppo doloroso.”

Altre uccisioni sono atti calcolati di brutalità. Nel maggio scorso il figlio più giovane di Chitam al-Wahwah, Anas, un diciottenne, studente modello e volontario del servizio ambulanze, è stato ucciso nella sua auto mentre lei gli era accanto nel sedile del passeggero. Il caso ha fatto pensare a una rappresaglia per i misfatti di un lontano membro della famiglia.

Talvolta le faide si inaspriscono grazie alla diffusa disponibilità di armi. Lo scorso marzo a Qalansawe, Abier Hatib e Zahya Nasra, vicini di casa, hanno perso i figli adolescenti, grandi amici, quando dei membri di un clan rivale ha aperto il fuoco contro un gruppo di ragazzi in giro durante il weekend. Originariamente lo scontro era iniziato mesi prima per una lite su un parcheggio.

Anche i femminicidi commessi dai partner e da altri uomini della famiglia sono in aumento.

Molti in questa comunità sono stati gravemente colpiti nel 1948 (dopo la guerra legata alla creazione di Israele]. La gente fu cacciata e finì in povertà. Dovettero ricominciare tutto da capo così ovviamente c’è criminalità,” dice Fida Sh’hade, appartenente al consiglio di Lod, una delle molte donne arabe in Israele che aiuta a organizzare le famiglie delle vittime in una nuovo e attiva lobby politica che si chiama ‘Mothers for life’ [Madri per la vita].

Quello che sta succedendo ora è la realtà di ciò che capita quando scuole, lavori, opportunità sono negate a un intero popolo. Circa un decennio fa la polizia colpì la mafia ebraica, mise in prigione i capi delle famiglie. Israele ha la migliore infrastruttura di sicurezza del mondo, ma nel nostro Paese la polizia non riesce a catturare alcuni teenager arabi con pistole? Ma dai! Dimostra esattamente quanto contiamo noi come cittadini.”

L’anno scorso è stato risolto solo circa un quarto dei casi di omicidio di arabi contro circa il 70% degli omicidi di cittadini ebrei, una disparità che, come dichiarato dalla polizia israeliana in un’email, rispecchia il fatto che le indagini degli omicidi sono “dense di ostacoli”, inclusa la “mancanza di cooperazione da parte dei cittadini”.

Comunque tutte le famiglie incontrate dal Guardian hanno detto che le loro offerte di aiuto per le indagini o per richieste di informazioni sui progressi nella soluzione dei loro casi sono stati ignorati. Abu Muamar, che ha accettato di testimoniare contro gli assassini di sua moglie, ha ricevuto minacce di morte dalla gang, ma nessun tipo di aiuto dalla polizia, eccetto un posto di controllo a un’estremità della strada in cui abita.

Il nuovo governo di coalizione di Israele, che per la prima volta include un partito arabo, ha fatto della lotta al crimine nella comunità araba una promessa centrale agli elettori, mettendo a bilancio 1 miliardo di shekel (273 milioni di euro) per aumentare le stazioni di polizia nelle città arabe e per creare un’unità speciale dedicata agli affari della comunità araba.

Comunque Omer Barlev, ministro del governo israeliano per la pubblica sicurezza, responsabile della polizia, ha riconosciuto in un’intervista che ci vorrà tempo prima che la gente “si convinca che veramente c’è stato un cambiamento”.

Negli ultimi sei mesi c’è stato un balzo del 30% nel numero di persone arrestate e portate in giudizio,” dice. “Prima le cose non erano mai state fatte con l’intensità con cui le facciamo oggi.”

Per le vittime che stanno organizzandosi e sostenendosi grazie a Mothers For Life, l’associazione di coordinamento che per la prima volta ha portato alla ribalta politica voci di donne, i cambiamenti non stanno avvenendo abbastanza in fretta.

A Bir al-Maksur, il villaggio natio di Ammar Hujarat, la casa della famiglia è piena di vicini, parenti e sconosciuti arrivati da tutte le parti per fare le condoglianze.

In questo momento la solidarietà di tutte queste persone, musulmani, cristiani, ebrei, è la sola cosa che mi dà forza,” dice Aisha, la mamma del piccolo. “Credo nella bontà delle persone. Non mi sarei mai aspettata che una cosa simile succedesse a noi … spero che questa rabbia serva a qualcosa. Gli omicidi devono finire.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)