Yagil Levy
17 ottobre 2022 – Haaretz
Alla fine di marzo, a seguito di una serie di attacchi terroristici, l’esercito israeliano ha lanciato l’operazione Breaking the Wave, nel corso della quale ha fatto irruzione nelle città palestinesi per arrestare e uccidere sospetti terroristi. Secondo i resoconti delle Nazioni Unite dall’inizio dell’operazione fino alla fine di settembre Israele ha ucciso 74 palestinesi in Cisgiordania.
Questo numero di vittime non ha nulla di normale: è opportuno fare un paragone con operazione Critical Time (“Godel Hasha’a”) quando, da ottobre 2015 a marzo 2016, l’esercito agì per sopprimere l’”Intifada dei lupi solitari” – attacchi di palestinesi non ufficialmente affiliati ad alcuna organizzazione – contro israeliani nell’estate del 2015.
Come la modalità attuale, la prima risposta dell’esercito fu offensiva: raid nelle aree in cui avevano avuto origine gli attacchi.
Ma il comandante della Brigata Regionale di Giudea e Samaria [la Cisgiordania secondo la definizione israeliana, ndt.], Brig. Gen. Lior Carmeli, dichiarò che si era trattato di un fallimento “così palpabile, che abbiamo deciso di fermare questa azione offensiva nel giro di pochi giorni”.
L’esercito si rese conto che i suoi metodi non erano adatti ad affrontare attacchi disorganizzati e, secondo Carmeli, si rese conto che “le vittime [palestinesi] degli scontri sono il principale carburante per la loro continua intensificazione. Evitare questo è una delle lezioni più significative delle precedenti rivolte”.
Perciò fu pianificata una politica di “regole di ingaggio” più restrittiva. Il maggiore generale Roni Numa, all’epoca capo del comando centrale dell’IDF, si vantò “dello sforzo di schierare la forza tattica, con la capacità delle truppe da combattimento di neutralizzare un assalitore senza uccidere… in modo da ridurre il numero dei funerali che si trasformano in manifestazioni pubbliche di simpatia…”
Questa politica fu sostenuta dal capo di stato maggiore Gadi Eisenkot, che predicò moderazione, anche se sostiene che la maggior parte dei ministri spingeva per una risposta dura, ma furono frenati dall’allora Primo Ministro Benjamin Netanyahu e dal Ministro della Difesa Moshe Yaalon. Alla fine, una terza Intifada fu scongiurata. Ciò non significa che i vertici militari fossero pacifisti, ma comprendevano i limiti dell’uso della forza.
Di questo approccio restrittivo nulla è rimasto. Sotto lo shock dell’affare Azaria [il soldato che uccise a sangue freddo un palestinese a terra ferito, ndt.], l’esercito stesso ha iniziato a compiacersi del numero delle vittime. Quando Aviv Kochavi ha sostituito Eisenkot come capo di stato maggiore dell’IDF, ha fatto eco a questa tendenza utilizzando il termine “letalità” e trasformando il conteggio delle vittime in un indicatore di esito positivo.
La maggiore influenza della destra sul governo in seguito alla rimozione di Netanyahu e le critiche al cosiddetto “abbandono” dei soldati, hanno portato a un allentamento delle regole di ingaggio verso la fine del 2021, quando è diventato lecito sparare sui palestinesi che lanciano sassi e ordigni incendiari anche dopo che hanno già lanciato i sassi o la molotov.
Sempre più prigioniero dei coloni, l’esercito israeliano ha ceduto alla loro crescente violenza nei confronti dei palestinesi. La saggezza della moderazione è svanita. Un’indicazione della facilità nell’uso delle armi da fuoco può essere ricavata dai rapporti di B’tselem, che si basano in parte sui resoconti ufficiali dell’ufficio del portavoce dell’IDF e che presentano le circostanze in cui è avvenuta ogni uccisione.
Basti una sola indicazione, relativa all’uccisione di persone che avevano lanciato pietre (esclusi i casi in cui l’esercito sostiene che il defunto aveva utilizzato anche altri mezzi di aggressione) – cioè i casi in cui i soldati avrebbero potuto reagire senza uccidere.
Su 142 vittime nell’operazione 2015-2016, 7 sono state colpite da colpi di arma da fuoco dopo aver lanciato pietre, ovvero circa il 5%. In “Breaking the Wave” sono 9 dei 47 casi segnalati da B’tselem fino alla fine di luglio, ovvero circa il 20%. In tali circostanze aumentano le probabilità che gli scontri si espandano in un’operazione ampia e sanguinosa, e forse che l’Autorità Nazionale Palestinese collassi.
La condotta dei militari rafforza la conclusione che forse la differenza tra i due casi non è solo chi comanda, ma anche gli obiettivi: si cerca l’annessione a pezzi della Cisgiordania, a cominciare dall’Area C, mentre si rifiuta l’opzione di riannodare i colloqui [con l’ANP, ndt.]. Questa è l’interpretazione più probabile per la combinazione tra violenza proattiva, di cui la leadership israeliana dovrebbe conoscere il probabile esito, e paralisi diplomatica.
(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)