ILAN PAPPE su Gamal Abdul Nasser: perché dobbiamo riesaminare la guerra del giugno 1967

Manifestazione di giubilo per Nasser. Foto: Wikimedia
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Ilan Pappe

27 giugno 2023 – Palestine Chronicle

Nasser sbagliò i calcoli riguardo alla reazione di Israele. Benché il governo israeliano sapesse molto bene che Nasser non intendeva iniziare una guerra, utilizzò la sua politica del rischio calcolato come pretesto per iniziare una guerra per conto proprio con l’obiettivo di costruire un piccolo impero, un Israele più grande.

Giugno è il mese in cui si ricorda la guerra del giugno 1967.

Gli storici riconsiderano un avvenimento non solo sulla base di nuove prove. Le loro analisi sono influenzate anche dal passare del tempo che consente loro di riesaminare aspetti differenti di eventi fondamentali come questo.

E quando indaghi la storia e utilizzi documenti e prove solide, a volte deludi amici e nemici.

In questo articolo vorrei riprendere in considerazione il ruolo in quella guerra dell’ex presidente egiziano Gamal Abdul Nasser. Penso che il suo ruolo non sempre corrisponda alla percezione comune di questo grande leader e forse deluda valutazioni percepite del suo contributo alla lotta.

Nasser, Palestina e Israele

Qui scrivo dal punto di vista palestinese, nel senso che sono meno interessato a quanto successe all’Egitto in seguito al ruolo di Nasser in Palestina, indubbiamente un argomento significativo. Mi interessa invece l’impatto del leader egiziano sulla storia della Palestina contemporanea.

Nasser arrivò al potere in quanto membro del movimento dei Liberi Ufficiali nella rivoluzione del luglio 1952. Subito dopo assunse la carica di vice capo del movimento, prima di togliere il comando a Muhmad Naguib.

Anche come vice capo era interessato ai negoziati con Israele. Ricorse a un importante diplomatico in Francia per iniziare colloqui con gli israeliani. La sua controparte fu Moshe Sharett, all’epoca ministro degli Esteri di Israele.

Certo Nasser considerava la Nakba come una catastrofe. Credeva fortemente al diritto dei rifugiati palestinesi a tornare e riteneva Israele una grave minaccia per il mondo arabo. Ma Nasser era anche un pragmatico che capiva bene come Israele fosse diventato una parte essenziale dell’assetto imperialista americano nel mondo arabo, e quindi cercò il modo di limitarne il potenziale pericolo.

All’epoca, nel 1952, Nasser non riteneva necessariamente gli Stati Uniti degli arcinemici dei regimi arabi progressisti e sperava che un approccio realistico verso Israele gli avrebbe ingraziato gli americani.

Nel 1952 fece due richieste ragionevoli e rimase sorpreso nell’apprendere che sia la Gran Bretagna che gli USA le trovarono accettabili: un ritorno incondizionato dei rifugiati palestinesi e un ponte terrestre attraverso il sud del Naqab (il Negev) che unisse Giordania ed Egitto. In cambio sarebbe stato disposto a [firmare] un patto di non aggressione con Israele e, successivamente, la pace.

Ben Gurion e i suoi due compari

Il primo ministro israeliano dell’epoca, David Ben Gurion, respinse categoricamente ogni contatto con il leader egiziano: di fatto, dal momento in cui fu chiaro che Nasser sarebbe stato il leader dell’Egitto, Ben Gurion cercò il modo di rovesciarlo.

Invece Sharett fu più disponibile: non che accettasse le condizioni di Nasser, ma apprezzò l’idea dei negoziati e sperò di trovare un compromesso.

Per un breve periodo, quando Sharett sostituì Ben Gurion come primo ministro di Israele per un anno e mezzo, tra il 1954 e il 1955, sembrò possibile arrivare a un compromesso.

Benché non fosse più nel governo, Ben Gurion aveva lasciato due compari che, come lui, credevano che Nasser dovesse essere spodestato. Questa convinzione era di per sé il risultato di un’ideologia radicata, in base alla quale solo un’esibizione della spietatezza di Israele avrebbe potuto ammansire gli arabi e cancellare ogni progetto panarabo che potesse aiutare i palestinesi.

Uno dei due compari era il ministro della Difesa Pinchas Lavon, l’altro il capo di stato maggiore Moshe Dayan.

I tre progettarono una serie di azioni per far fallire il desiderio di Sharett di raggiungere un accordo con Nasser. Si iniziò con la violazione dell’accordo di armistizio con l’Egitto costruendo una colonia illegale sulla terra di nessuno, seguita dall’ignobile massacro nel villaggio di Qibyah, in Cisgiordania.

Esso venne messo in atto nel 1953 da unità d’élite israeliane guidate da Ariel Sharon. Sessantacinque abitanti vennero uccisi, in parte facendo saltare in aria le loro case mentre vi stavano ancora dormendo.

Ma il culmine di questa campagna fu la formazione di un’organizzazione terroristica di ebrei egiziani a cui venne ordinato di piazzare bombe in cinema e librerie legate alla cultura occidentale per incrementare la sfiducia verso Nasser agli occhi degli americani.

I terroristi vennero catturati prima che riuscissero a portare a termine le loro azioni.

Il ritorno al potere di Ben Gurion

Dopo un’assenza relativamente breve Ben Gurion tornò al potere. Nel febbraio 1955 inviò il suo esercito nella Striscia di Gaza per compiere un’operazione militare che diede come risultato l’uccisione di 37 soldati egiziani. Fino a quel momento, come indicato nelle sue memorie dallo stesso Nasser, il leader egiziano era disposto a negoziare con Israele, attenendosi a una posizione che americani e britannici vedevano ancora come sensata e realizzabile.

Quando comprese che l’Occidente non era disposto a esercitare pressioni su Israele e non avrebbe mosso un dito per porre fine alle ambizioni colonialiste e annessioniste di Israele verso il mondo arabo, Nasser cambiò rotta. Ora si era convinto che Israele avrebbe attaccato sia la Siria che la Giordania per espandere i propri confini geografici. Ciò richiese un nuovo modo di pensare.

La nuova strategia di Nasser

Allora Nasser intraprese una nuova strategia, che includeva un appoggio più evidente alle nascenti attività di resistenza e di guerriglia dei palestinesi contro Israele, tentativi di unità panaraba, la creazione di un blocco di Paesi non allineati [né con gli USA né con l’URSS, ndt.] con India e Jugoslavia e l’acquisto di armi più moderne per il suo esercito.

Tra tutte queste politiche egli scelse quella nota come del rischio calcolato, utilizzando discorsi bellicosi e simulando la preparazione della guerra, con la speranza che ciò sarebbe stato sufficiente per obbligare l’Occidente a esercitare pressioni su Israele perché cessasse i suoi attacchi.

Questa strategia includeva la chiusura degli stretti di Tiran che collegano il Mar Rosso al Golfo di Aqaba, concentrando un’armata nella penisola del Sinai e chiedendo all’ONU di ritirarsi dalla frontiera tra Egitto e Israele.

Ma Nasser sbagliò previsione riguardo alla reazione israeliana. Benché sapesse benissimo che Nasser non intendeva fare la guerra, il governo israeliano utilizzò la sua politica del rischio calcolato come pretesto per iniziare una guerra per conto proprio con l’obiettivo di costruire un piccolo impero, un Israele più grande.

Il resto, come si suol dire, è storia

Documenti declassificati

Documenti recentemente declassificati degli incontri del governo israeliano mostrano chiaramente che i dirigenti israeliani capirono che la guerra non era imminente e che molto dipendeva dalle loro azioni.

In effetti non c’era bisogno di attendere l’apertura degli archivi per arrivare a tale conclusione. Molti leader israeliani lo ammisero. Uno di loro fu Menachem Begin, che faceva parte del governo dell’epoca e che disse a capi militari dell’esercito israeliano:

“Nel giugno 1967 facemmo di nuovo una scelta. La concentrazione dell’esercito egiziano sui confini del Sinai non dimostrava che Nasser stesse realmente per attaccarci. Dobbiamo essere onesti con noi stessi: noi decidemmo di attaccarlo.”

Israele ha bisogno della guerra

Come nel 1948, anche nel 1967 Israele aveva bisogno di guerre per raggiungere i tipici obiettivi di ogni movimento colonialista di insediamento: avere più spazio geografico con meno popolazione nativa che vi abiti.

Dal 1963 Israele aveva preparato piani complessivi in attesa della mossa perfetta per iniziare il suo progetto di un “Israele più grande”. Ma fallì, perché credeva erroneamente che lo squilibrio demografico derivante dalla creazione di una tale entità potesse essere facilmente risolto opprimendo per decenni milioni di palestinesi. Dato che non poteva replicare la campagna di pulizia etnica del 1948, Israele scelse di trattare le popolazioni da poco occupate come detenuti in una vasta e sempre più grande prigione.

La resistenza palestinese a questa mostruosa politica continua fino ad oggi.

La lezione è che, persino con un governo di sinistra, laburista, che governò Israele tra il 1948 e il 1977, Israele non voleva la pace. Al contrario, Tel Aviv sperò di imporre la sua volontà al mondo arabo alleandosi strettamente con l’Occidente.

Le conseguenze di questa strategia si fecero sentire oltre la Palestina, il cui popolo fu la principale vittima di questa intransigenza israeliana. Di fatto ebbe un impatto notevole e dannoso su tutto il mondo arabo.

Sfortunatamente stiamo ancora assistendo ai frutti amari di questa aggressione, che può essere fermata solo dalla liberazione della Palestina e dalla creazione di uno Stato democratico su tutta la Palestina storica, che garantisca il ritorno dei profughi.

È l’unico modo che ci consentirebbe di chiudere questo pericoloso e triste capitolo della storia del mondo arabo e, si spera, permetterebbe a tutti noi di iniziarne uno nuovo e più promettente.

Ilan Pappé è docente all’università di Exeter. È stato in precedenza professore associato all’università di Haifa. È autore di La pulizia etnica della Palestina [Fazi, 2008], The Modern Middle East [Il moderno Medio Oriente], Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli [Einaudi, 2014] e Ten Myths about Israel [Dieci miti su Israele]. Pappé è considerato uno dei “nuovi storici” israeliani che, da quando all’inizio degli anni ’80 sono stati resi pubblici documenti ufficiali britannici e israeliani sull’argomento, hanno riscritto la storia della creazione di Israele nel 1948. Ha concesso questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)