Le dichiarazioni di Netanyahu dovrebbero indurre un importante cambiamento di paradigma nella Palestina  occupata

Benjamin Netanyahu Foto: RONEN ZVULUN/POOL/AFP
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Ramzy Baroud

4 luglio 2023 – Middle East Monitor

È noto che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sia contrario alla creazione di uno Stato palestinese, ma ora ha detto chiaramente di voler andare persino oltre. Come riportato dai media israeliani egli ha affermato alla commissione Difesa e Affari Esteri della Knesset: “Dobbiamo eliminare le aspirazioni [arabo-palestinesi] a uno Stato,”. Il leader di destra ha aggiunto che il suo governo sta “preparandosi per il giorno dopo Abbas,” riferendosi all’88enne presidente dell’Autorità Palestinese. “È nostro interesse che l’Autorità [Palestinese] continui a lavorare. Nelle aree in cui riesce ad agire, lavora per noi.”

Alcuni, tra cui alcuni funzionari dell’Autorità Palestinese, sembrano stranamente sorpresi dalle sue parole, dato che le intenzioni israeliane sulla libertà e il desiderio di uno Stato dei palestinesi sono noti persino ai novellini della politica.

Il portavoce ufficiale della presidenza palestinese ha replicato sottolineando che solo uno Stato palestinese indipendente può garantire “sicurezza” e “stabilità”. Questa terminologia è usata spesso dai funzionari palestinesi per suscitare supporto negli USA, poiché questo linguaggio è mutuato dalla narrazione di Washington sulla Palestina e il Medio Oriente. In pratica “sicurezza” è quasi sempre connessa con Israele e “stabilità” è legata a programmi e interessi USA nella regione.

Tuttavia questo linguaggio non è affatto importante per Israele, perché la “sicurezza” dal punto di vista di Tel Aviv si ottiene con il sostegno incondizionato degli USA e il “coordinamento sulla sicurezza” con l’accordo fra l’occupazione militare israeliana e l’AP. Entrambe sono già state ottenute. Ecco perché Netanyahu ha detto alla commissione della Knesset che l’AP “fa il lavoro per noi”, aggiungendo “e non abbiamo alcun interesse che crolli”. In altre parole il primo ministro israeliano considera l’AP come un’altra linea di difesa contro quegli stessi palestinesi i cui interessi l’Autorità dovrebbe rappresentare e promuovere.

Per quanto riguarda la “stabilità”, essa è di scarso interesse per Israele, che in termini pratici definisce stabilità il proprio completo dominio sui palestinesi. Anzi, sull’intera regione.

Nessuna delle affermazioni su esposte è basata su complesse analisi o congetture, esse sono desunte da dichiarazioni ufficiali e azioni israeliane sul terreno.

Quando Bezalel Smotrich, ministro israeliano di estrema destra, a marzo ha dichiarato che ” i palestinesi non esistono perché non esiste il popolo palestinese,” non stava dando una lezione di storia o semplicemente tenendo un discorso d’odio. Stava dichiarando indirettamente che Israele non è responsabile né moralmente, né legalmente né politicamente delle sue azioni contro coloro che, nella perversa visione sionista del mondo, non esistono.

Le sue considerazioni sono coerenti con i continui pogrom commessi dai suoi sostenitori, i coloni ebrei illegali, armati e pericolosi, in tutta la Cisgiordania occupata, contro i palestinesi a Huwara, a febbraio, e più di recente contro Turmus Ayya e altre città e villaggi palestinesi. Né gli americani né gli europei hanno imposto alcuna misura punitiva contro Smotrich e neppure contro le bande di coloni che hanno dato fuoco a case e auto palestinesi, uccidendo e ferendo molti durante gli attacchi.

Eppure questa è solo una piccolissima parte di un quadro più ampio in cui Israele dice e fa quello che vuole, mentre gli americani continuano a recitare un vecchio copione politico come se niente fosse cambiato sul terreno. Eppure non ci possono essere dubbi che i responsabili della politica estera USA sappiano molto bene che Israele non ha alcun interesse in una conclusione giusta e pacifica alla sua occupazione militare della Palestina.

Perciò abbiamo il diritto di chiedere perché il governo statunitense insista nel seguire la stessa logora formula e solleciti entrambe le parti a impegnarsi nuovamente nel cosiddetto “processo di pace” e ritornare ai negoziati. Questo mantra continua a definire la politica estera USA come ha fatto sin dai primi anni ’90, quando Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) firmarono gli accordi di Oslo. Oslo peggiorò una situazione già pessima: da allora il numero di colonie illegali e i coloni sono triplicati e il popolo palestinese è ancora più vulnerabile, non solo davanti alla violenza israeliana, ma anche per la repressione e corruzione dell’AP. Non è sicuramente una coincidenza che Abbas abbia giocato un ruolo chiave nella firma degli accordi di Oslo.

Sebbene Oslo sia stato ingiusto con i palestinesi, dato che opera largamente al di fuori dei paradigmi internazionali accettabili e non ha clausole per farli rispettare o scadenze, Netanyahu e altri leader israeliani vi si sono comunque opposti, perché, seppure simbolicamente, ci si aspetta che Israele si comporti in un certo modo. Sentirsi dire di non costruire o espandere le colonie, per esempio, ha sempre fatto infuriare Netanyahu, che nel passato ha attaccato molte volte persino i suoi benefattori americani su questo tema, in particolare durante l’amministrazione del presidente Barack Obama.

I leader israeliani si sentono al di sopra di ogni legge o aspettativa che provenga dall’esterno, anche se queste aspettative sono piuttosto limitate e provengano da stretti alleati come Washington. Naturalmente con il tempo Netanyahu prevarrà non solo su ogni presunta “pressione” dagli USA e dalla comunità internazionale, ma anche sulle forze politiche più “progressiste” nella sua società.

Ora, armato di un governo di coalizione stabile e apparentemente immune da ogni critica significativa, ancor meno di tangibili conseguenze per le sue azioni, il leader israeliano è pronto a portare avanti senza esitazioni i suoi programmi di destra.

Ed ecco quindi le sue recenti osservazioni, che sono una versione ancora più arrogante delle dichiarazioni fatte nell’ottobre 2004 dall’alto consigliere del governo israeliano Dov Weissglas, che spiegò le vere intenzioni che stavano dietro il disimpegno dell’esercito israeliano a Gaza nel 2005. Era una tattica israeliana che mirava a “congelare il processo di pace,” ha detto Weissglas ad Haaretz. “E quando si congela quel processo si impedisce la creazione di uno Stato palestinese e si previene una discussione sui rifugiati, i confini e Gerusalemme. Effettivamente l’intero pacchetto chiamato Stato palestinese, con tutto quello che esso comporta, è stato rimosso a tempo indeterminato dai nostri piani.”

In realtà questo ” intero pacchetto” era stato rimosso da lungo tempo dai programmi israeliani, ma i leader del Paese hanno continuato a riferirsi comunque a uno Stato palestinese per soddisfare aspettative al ribasso della politica USA. Netanyahu ha giocato questo giochino in più di un’occasione, fra le altre nella sua intervista a febbraio con la CNN, in cui ha sostenuto che uno Stato palestinese è possibile, ma solo se non ha la sovranità. Adesso è pronto a superare quell’apparentemente vecchio linguaggio per muoversi in territori politici nuovi, dove non è permessa neppure l’aspirazione a una Palestina indipendente.

Se il linguaggio di Netanyahu, allarmante ma onesto, spingerà probabilmente molti israeliani alla violenza e palestinesi alla resistenza, dovrebbe anche indurre una maggiore chiarezza, facendo accantonare una volta per tutte il discorso disonesto su “sicurezza”, “stabilità” e sul moribondo “processo di pace”.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

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