Il sionismo liberale: un pilastro del progetto coloniale di insediamento di Israele

image_pdfimage_print

Muhannad Ayyash*

Al-Shabaka** – giugno 2023

 

Panoramica

Nonostante le politiche sempre più di destra del regime israeliano, il sionismo liberale gioca ancora un ruolo dominante nell’ideologia sionista. Svolge la funzione specifica e cruciale di fornire al progetto sionista la patina di una civiltà occidentale illuminata e di una politica democratica e progressista. Di conseguenza, il regime israeliano è raramente descritto nei circoli occidentali tradizionali per quello che è: uno stato coloniale che pratica l’apartheid.

I politici e i media di tutto lo spettro politico in Europa, Nord America e altrove descrivono Israele in gran parte come “l’unica democrazia in Medio Oriente” che condivide i valori occidentali, il che ne fa un faro per la politica progressista in una regione altrimenti autoritaria e irredimibile. Questa retorica viene quindi utilizzata per giustificare il sostegno sfrenato dell’Occidente al regime israeliano, anche fornendo i mezzi diplomatici, economici e militari necessari per mantenere ed espandere la sua colonizzazione della Palestina.

Sebbene le ideologie sioniste di destra abbondino e abbiano i loro sostenitori in tutto il mondo, specialmente tra i sionisti cristiani, con cui è necessario confrontarsi, è fondamentale sfatare il sionismo liberale. Mentre i leader globali e i media tradizionali continuano a esprimere preoccupazione per il governo di coalizione estremista israeliano e chiedono un ritorno alla soluzione dei due stati, l’idea che esista una forma liberale di sionismo che vale la pena salvare deve essere confutata. Dopo aver definito il sionismo liberale, esposto i suoi fondamenti coloniali di insediamento e di apartheid e aver offerto un caso di studio dagli Stati Uniti, questo documento politico propone un quadro guida su come affrontare e invalidare la nozione di sionismo liberale.

Comprendere il sionismo liberale

Il sionismo liberale contemporaneo emerge dal Sionismo laburista: il cosiddetto braccio socialista di sinistra del movimento sionista emerso più di un secolo fa e che ha svolto un ruolo fondamentale nella formazione dello Stato sionista. Dall’istituzione dello Stato il sionismo liberale è apparso come costitutivo delle politiche dei successivi governi di sinistra e degli scopi di organizzazioni non governative, gruppi di pressione, partiti politici e reti e istituzioni accademiche che promuovono Israele come stato ebraico liberale. Il sionismo liberale godette di un’egemonia ideologica per molti decenni dopo il 1948. Come scrive il sionista liberale Yehuda Kurtzer riferendosi ai primi sionisti: “I sionisti trionfanti compresero quello che stavano facendo nel costruire un movimento politico liberale. Il liberalismo è stato incorporato nel sionismo politico che alla fine ha portato alla costruzione dello Stato”.

Come Kurtzer, la maggior parte degli analisti israeliani si concentra sull’interazione tra le ideologie di sinistra e di destra come una questione di politica intra-israeliana e intra-ebraica. Il sionismo, tuttavia, è meglio definito attraverso le esperienze delle sue vittime: i palestinesi. Da questa prospettiva, il sionismo liberale può essere inteso solo come coloniale di insediamento, radice e germoglio, poiché è direttamente responsabile della Nakba del 1948. Sebbene il sionismo liberale non sia un monolite, i suoi sostenitori hanno operato per decenni nei circoli che formano l’opinione pubblica ponendo al centro le seguenti convinzioni:

  1. L’istituzione dello Stato israeliano è l’unico metodo per garantire la sicurezza degli ebrei e risolvere l’esilio ebraico;
  2. Gli ebrei hanno rivendicazioni radicate, bibliche e sovrane sulla terra di Palestina;
  3. Il progetto sionista è uno sforzo eroico e miracoloso che ha portato la fiaccola della modernizzazione e della civiltà nella cosiddetta terra di Israele; e
  4. La “Guerra d’Indipendenza” del 1948 fu necessaria, e i risultati della guerra – vale a dire, l’espulsione di più di 750.000 Palestinesi dalle loro terre e case e la distruzione della Palestina – erano una conseguenza naturale che dovrebbe essere accettata.

Non tutti i sionisti liberali sono d’accordo con ciascuno dei quattro punti. Ad esempio, alcuni usano un linguaggio molto diverso per il quarto punto, sostenendo che i palestinesi se ne sono andati e non sono stati espulsi. Tuttavia, attraverso le sue varianti, l’ideologia sionista liberale tradizionale sostiene che la conquista coloniale della Palestina nel 1948 fu giusta, legittima, valida e pienamente giustificabile e, pertanto, nessuna critica seria può essere diretta contro l’istituzione di Israele nel 1948.

“Il sionismo liberale può essere inteso solo come colonialismo di insediamento, radice e germoglio, in quanto direttamente responsabile della Nakba del 1948”

Il sionismo liberale è ostile alle critiche di decolonizzazione palestinesi del 1948 e spesso le dipinge come antisemite per emarginarle e censurarle. La cancellazione della critica palestinese attraverso la nozione di “nuovo antisemitismo” risale almeno ai primi anni ’70, quando il Ministro degli Esteri israeliano per il governo laburista, Abba Eban, iniziò a sostenere la narrazione che l’antisionismo è antisemitismo. Inoltre, i sionisti liberali usano queste opinioni di fondo per criticare l’occupazione della Cisgiordania nel 1967, compresa Gerusalemme est e Gaza, evitando accuratamente di attirare l’attenzione sul 1948.

Un articolo di opinione del 2023 sul Washington Post ad opera dei sionisti liberali Paul Berman, Martin Peretz, Michael Walzer e Leon Wieseltier è un buon esempio di queste critiche tattiche. Gli autori collocano Israele dal momento della sua fondazione all’interno delle “nazioni amanti della libertà” del mondo, sostenendo che il nuovo governo di destra di Benjamin Netanyahu “minaccia la posizione di Israele negli affari mondiali”.

La centralità del problema dell’immagine è accentuata alla fine del pezzo, dove si insiste sul continuo e pieno finanziamento militare degli Stati Uniti a Israele e si chiede il sostegno degli Stati Uniti agli israeliani che protestano contro il governo di coalizione di destra di Netanyahu.

Il “doppio, ma non contraddittorio, sostegno”, come dicono loro, è davvero una descrizione accurata, ma non perché, come suggeriscono, proteggerebbe la democrazia nella battaglia globale di “democrazia contro autocrazia”. Piuttosto è perché sottoscrivere questa richiesta all’amministrazione Biden è un riconoscimento implicito che: (a) ciò che è stato preso con la forza nel 1948 può essere detenuto solo con la forza – da qui il bisogno continuo e perpetuo di finanziamenti militari indipendentemente da quale ideologia politica sia al potere – (b) il rifiuto delle politiche espansionistiche e di annessione del nuovo governo salverà lo Stato ebraico come Stato per una maggioranza ebraica, impedendo in modo decisivo alla critica palestinese di Israele di entrare nel discorso mainstream.

Ciò dimostra che il sostegno dei sionisti liberali alle proteste israeliane del 2023 nei territori del 1948 non è affatto in opposizione al progetto di insediamento coloniale dello Stato sionista, ma, piuttosto, un’indicazione della loro preoccupazione che il percorso di destra possa distruggere la patina liberale del colonialismo di insediamento israeliano. In definitiva, la sinistra e la destra sono sullo stesso piano per quanto riguarda la creazione e la “difesa” di Israele come Stato a maggioranza ebraica. Infine è fondamentale comprendere il sionismo liberale come parte integrante della modernità coloniale. In altre parole quella modernità – concepita come fenomeno occidentale – non può essere separata dagli strumenti utilizzati per realizzarla: la colonizzazione e la schiavitù. Non sorprende che i sionisti liberali non riescano ad affrontare in modo critico le fondamenta violente e coloniali delle cosiddette democrazie liberali occidentali. Invece accettano come giudizio convenzionale e dato di fatto che la civiltà occidentale sia superiore a tutte le altre e vanti i sistemi democratici più avanzati del mondo.

Inoltre l’Occidente sta giustamente e globalmente diffondendo una civiltà che si è sviluppata completamente all’interno dell’Occidente. Un esempio calzante è il libro più recente di Walzer, in cui elogia e promuove la “moralità liberale” e il “liberalismo” come “prodotto dell’Illuminismo e del trionfo… dell’individuo emancipato, una figura occidentale”. Sostiene che questa presunta invenzione occidentale, di cui Israele fa parte, è necessaria per impedirci di diventare “monisti, dogmatici, intolleranti e repressivi”.

Assente dal libro è un paradigma de-coloniale che ponga al centro le esperienze e le aspirazioni di coloro che hanno sofferto e sono stati cancellati a causa del progetto coloniale occidentale. Separando la civiltà dell’Occidente da ciò che fa l’Occidente, il sionismo liberale giustifica, legittima e naturalizza il violento progetto coloniale di insediamento sionista nella Palestina colonizzata e oltre.

Politiche coloniali di insediamento e di apartheid del sionismo liberale

Come evidenziato dall’espulsione di massa dei palestinesi nel 1948 e dalla successiva giustificazione e legittimazione ideologica di tale espulsione, tutte le politiche che sorgono all’interno del quadro del sionismo liberale sono coloniali di insediamento e di apartheid. Fondamentalmente, la creazione dello Stato sionista nel 1948 fu un’operazione di colonialismo di insediamento; rese necessaria l’espulsione e l’espropriazione dei palestinesi. Subito dopo Israele promulgò una serie di leggi di apartheid per rendere permanente l’espulsione e per iniziare il processo di ebraizzazione della Palestina colonizzata: la Legge del Ritorno del 1950, la Legge sulla proprietà degli assenti del 1950 e la Legge sulla Nazionalità del 1952, tra molte altre.

Come parte della loro accurata attenzione al problema dell’immagine di Israele i sionisti liberali evitano il linguaggio che riveli la realtà della colonia di insediamento. Ad esempio nella loro critica all’ultimo governo di coalizione Netanyahu, Berman, Peretz, Walzer e Wieseltier descrivono le politiche coloniali di insediamento e di apartheid di Israele come una campagna “sempre più aggressiva” per stabilire ulteriori insediamenti e “sfide crescenti” ai cittadini palestinesi di Israele. Descrivono inoltre il governo di Netanyahu come sostenitore del “vigilantismo ebraico estremista” e degli “etno-nazionalisti”, avvertendo che Israele si sta avvicinando all’Ungheria di Viktor Orban. Nel loro discorso, Israele diventa un’altra vittima dell’ondata globale di etnonazionalismo che sta minacciando le democrazie liberali occidentali, un punto che altri, come Kurtzer, sottolineano più esplicitamente per riaffermare l’immagine di Israele come fondamentalmente una democrazia liberale.

Questa visione è tutt’altro che rispondente a realtà. Israele continua a consolidare un sistema che spazialmente, politicamente, militarmente, economicamente e legalmente colloca il colono in una posizione superiore alla popolazione indigena.

Questo viene fatto in modo tale da avvantaggiare materialmente e simbolicamente il colono; da un lato, gli insediamenti vengono espansi e, dall’altro, il colono viene legittimato come abitante del territorio mentre il palestinese viene sfollato. A questo proposito, l’apartheid è un passo lungo il continuum di violenza del colonialismo di insediamento che inizia con l’espulsione di massa e il trasferimento delle popolazioni indigene. È un processo che elimina la sovranità indigena, fungendo così da strumento per cementare ed espandere le conquiste delle colonie di insediamento.

Dal momento che i sionisti liberali presumibilmente sostengono una soluzione a due Stati lungo i confini del 1967, teoricamente non dovrebbero più essere interessati all’espansione; anzi, considerano l’occupazione pericolosa per il progetto dello stato ebraico. Ciò è talvolta espresso attraverso una critica delle politiche e delle pratiche di apartheid (senza usare il termine apartheid) che espandono lo stato israeliano stabilendo un potere totalitario sui palestinesi. Tuttavia questo sostegno a una soluzione a due Stati deve essere inteso come basato sulla loro radicata paura di una soluzione a uno Stato in cui la sovranità israeliana “non ufficiale” sui palestinesi si trasformerà in sovranità israeliana “ufficiale” sull’intera Palestina colonizzata, lasciando Israele con una significativa popolazione palestinese che minacci lo status di Israele come stato ebraico. Dal momento che il sionismo liberale non può conciliare il sogno sionista di uno stato ebraico etnocratico con la vera democrazia, la realtà di un unico stato svelerà questo errore fondamentale. In questo modo, le politiche coloniali e di apartheid sono radicate nell’ideologia sionista liberale che rifiuta di affrontare ciò che il sionismo è ed è sempre stato nei fatti.

Un caso di studio sul sionismo liberale statunitense

Una delle principali organizzazioni sioniste liberali negli Stati Uniti è J Street, che si descrive come un’organizzazione “pro-Israele, pro-pace, pro-democrazia” che lavora contro “il fanatismo, la disuguaglianza e l’ingiustizia”.

È importante sottolineare che J Street sostiene che Israele condivide questi

“principi democratici” con gli Stati Uniti, dipingendo la “grave minaccia” alla “democrazia liberale” in Israele come parte di una recente ondata globale di estremismo ed etnonazionalismo che minaccia anche gli Stati Uniti.

Afferma inoltre di lavorare “in coalizioni multireligiose e multirazziali con le comunità nei loro sforzi per superare … l’oppressione e rafforzare la democrazia liberale”. Infine, ritiene che Israele affronti “nemici pericolosi” e abbia il diritto di difendere sé stesso e, per estensione, la democrazia, il progresso e la civiltà.

Basandosi su queste premesse che rendono illegittimo “mettere in discussione il diritto fondamentale di Israele di esistere come patria ebraica”, J Street costruisce la sua opposizione all’occupazione. In effetti, l’organizzazione riconosce che i palestinesi “meritano pieni diritti civili e la fine dell’ingiustizia sistemica dell’occupazione” e che “sostiene la creazione di uno Stato di Palestina indipendente e smilitarizzato con confini definiti”. In questo modo, J Street si posiziona solidamente come liberale e ragionevole.

“Il sionismo liberale è un’ideologia che fornisce copertura e fa avanzare la conquista coloniale di insediamento della Palestina in nome della razionalità, del progresso, dell’uguaglianza, della tolleranza, della democrazia e persino dell’anti-razzismo”.

Anche così, J Street non riesce a spiegare perché crede che uno Stato palestinese debba essere smilitarizzato. Questo serve da esempio eloquente di come i sionisti liberali ritengano che i palestinesi siano già – o possano sempre potenzialmente diventare – pericolosi nemici che, se gli venissero dati gli strumenti per esercitare una violenza militare organizzata, la scatenerebbero inevitabilmente. Tale linguaggio rientra esattamente nei discorsi e nelle politiche sioniste decennali che razzializzano i corpi palestinesi come violenti.

Anche la posizione di J Street sui confini è rivelatrice. Il sito web dell’organizzazione afferma che Israele deve “rinunciare alla stragrande maggioranza del territorio occupato su cui può essere costruito uno Stato palestinese in cambio della pace”. Invitando Israele a “cedere” il territorio, J Street riconosce implicitamente che Israele ne ha la sovranità, riflettendo la logica fondamentale del sionismo liberale secondo cui Israele ha diritto alla terra dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo.

Inoltre J Street chiarisce, rispetto alla sua proposta politica sui confini, che la sua idea di un piano di pace “consentirebbe di incorporare nello Stato di Israele i quartieri ebraici stabiliti a Gerusalemme est e alcuni dei grandi blocchi di insediamenti della Cisgiordania vicino alla Linea Verde. ” Questa politica indica il sostegno all’annessione e si allinea con i governi israeliani di tutto lo spettro politico.

Il dilemma dell’annessione

Per J Street e organizzazioni simili l’annessione deve essere limitata per paura che l’espansione riveli le fondamenta di Israele come colonia di insediamento. Anche se i sionisti liberali ignorano che le terre occupate nel 1948 sono diventate ebraiche e democratiche – solo per gli ebrei – attraverso politiche e leggi di colonialismo di insediamento e apartheid, questa realtà è sempre presente nella loro ideologia. Appare, prima di tutto, nella loro opposizione al diritto palestinese al ritorno nelle loro terre d’origine. Ma appare anche nelle loro preoccupazioni che la crescente visibilità della violenza quotidiana di Israele contro i palestinesi – grazie alla rivoluzione digitale e all’attivismo palestinese – possa portare gli osservatori internazionali a mettere in discussione tutte le politiche di Israele e, forse, il suo stesso fondamento.

Questa paura spinge i sionisti liberali a criticare il governo di coalizione di destra di Netanyahu. Come possono sostenere la narrazione di Israele come Stato democratico ed ebraico se annettono l’intera Palestina colonizzata? Pertanto, la principale implicazione del nuovo regime israeliano per il sionismo liberale è che lo espone per il mito che è. In altre parole il nuovo regime israeliano accompagna le politiche di eliminazione con un’onesta articolazione dell’aspirazione alla base di queste pratiche, come quando il ministro delle finanze Bezalel Smotrich ha invitato lo Stato israeliano a “spazzare via” la città di Huwara in Cisgiordania, smantellando così l’apparenza di politiche democratiche e progressiste che i sionisti liberali hanno impiegato decenni a costruire.

Nei loro sforzi per salvare quell’apparenza i sionisti liberali hanno risposto protestando contro l’attacco a Huwara usando il linguaggio di “anti-occupazione”, “coloni estremisti” e persino “terrore ebraico”. Ma continuano a ignorare che le terre che chiamano “Israele vero e proprio” – da cui portano avanti le loro proteste – sono state stabilite come “israeliane” dalla stessa struttura di violenza coloniale di insediamento che mira alla cancellazione di Huwara.

Il sionismo liberale si colloca, nella migliore delle ipotesi, in una politica liberale multiculturale che vede le basi dei sistemi politici coloniali di insediamento come forse tragiche, ma fondamentalmente giuste e orientate al progresso e alla civiltà. A questo proposito, si unisce a un lungo elenco di apologeti dei progetti coloniali occidentali, nascondendone i fondamenti e le strutture e quindi emarginando ed eliminando le alternative a tali strutture. Se la politica progressista oggi non vede il progetto antirazzista come un progetto che deve necessariamente essere de-coloniale e impegnato a smantellare le strutture della modernità coloniale, allora non è affatto una politica progressista.

La de-sionizzazione è l’unica via da seguire

Il sionismo liberale è un’ideologia che fornisce copertura e promuove la conquista coloniale della Palestina in nome della razionalità, del progresso, dell’uguaglianza, della tolleranza, della democrazia e persino dell’antirazzismo. È quindi fondamentale contrastare questa ideologia in tutti gli spazi in cui opera. Ciò significa il rifiuto del sionismo liberale come “partner nella pace” e l’insistenza sulla liberazione de-coloniale palestinese per l’intera Palestina colonizzata e ovunque per i palestinesi.

Un quadro di liberazione de-coloniale è a lungo termine vantaggioso anche per gli ebrei israeliani. Questo è ciò che intendiamo con de-sionizzazione: inizia con il riconoscimento da parte degli ebrei israeliani che il sionismo non ha mai risolto la “questione ebraica” in Europa, ma piuttosto l’ha interiorizzata e ha replicato il progetto coloniale occidentale in Palestina; finisce in un luogo in cui gli ebrei israeliani non sarebbero più “nativi o coloni nella Palestina storica”, ma piuttosto “immigrati… residenti benvenuti in una patria storica”. È importante sottolineare che questo concetto significa la rivisitazione dello Stato, del nazionalismo e della sovranità lontano dai modelli coloniali occidentali.

Al di là della Palestina colonizzata, il sionismo liberale deve essere sfatato attraverso i partiti e le istituzioni politiche, i media e le collettività della società civile. Sia in situazioni di attivismo che in situazioni più istituzionali le persone devono formare coalizioni intersezionali impegnate nella giustizia de-coloniale. Questi collettivi devono organizzare attività come momenti di riflessione e studio nella comunità, petizioni, campagne di scrittura di lettere e così via al fine di elaborare strategie su come affrontare l’inevitabile rifiuto del sionismo.

Queste coalizioni devono seguire cinque pratiche principali per realizzare la de-sionizzazione:

1-Contrastare l’ideologia con la realtà: giornalisti, studiosi e attivisti dovrebbero rifiutare le posizioni delle organizzazioni sioniste liberali, come J Street, ponendo la questione di cosa significhi effettivamente l’autodeterminazione palestinese nei confronti della sovranità su Gerusalemme e così via. I sionisti liberali non vogliono affrontare la liberazione palestinese de-coloniale, quindi è necessario spostare la conversazione su questo argomento e rifiutare la normalizzazione della colonizzazione di insediamento israeliana.

2-Rifiutare l’uso come arma dell’antisemitismo: il sionismo liberale non presenta risposte sostanziali alle critiche de-coloniali e quindi, quando costretto, risponde con l’accusa di antisemitismo. Istituzioni e organizzazioni devono rifiutare definizioni di antisemitismo che in qualche modo incorporino la questione della Palestina (da destra, l’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto (IHRA), a sinistra, la Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo).

3-Concentrarsi sui paradigmi palestinesi: non basta ascoltare le storie di sofferenza dei palestinesi. Il discorso pubblico deve concentrarsi sui paradigmi palestinesi che spiegano perché e come i palestinesi soffrono e, soprattutto, forniscono una piattaforma per le aspirazioni palestinesi alla liberazione. Per consentire questo cambiamento, è necessario esercitare pressioni sui media per sfidare lo status quo che censura e mette a tacere i paradigmi palestinesi.

  1. Enfatizzare l’antirazzismo de-coloniale: gli uffici per l’Equità, la Diversità e l’Inclusione (EDI) si sono diffusi nelle istituzioni politiche e sociali. Molti operano sull’antirazzismo corporativizzato, multiculturale e liberale e sostengono che le critiche de-coloniali a Israele sono antisemite e quindi non hanno posto negli spazi antirazzisti. Opporsi all’iniziativa corporativizzata EDI è necessario non solo per la liberazione palestinese, ma anche per la liberazione di tutti coloro che continuano a subire la violenza della modernità coloniale.

5-Smantellare il sionismo: il sionismo non può portare alla liberazione de-coloniale. Che sia liberale o di destra, il sionismo è l’esclusiva sovranità ebraica sulla terra, che stabilisce Israele come potere supremo e indivisibile. Ciò significa necessariamente la continua espulsione dei palestinesi dalle loro terre e l’eliminazione della sovranità indigena palestinese. Solo lo smantellamento della sovranità coloniale di insediamento dei coloni sionisti può portare a un sostanziale progetto de-coloniale e antirazzista. Perché ciò sia possibile le comunità ebraiche e israeliane – in nome delle quali pretendono di parlare gli interessi sionisti – devono partecipare al progetto di de- sionizzazione.

 

*M. Muhannad Ayyash è nato e cresciuto a Silwan, Al-Quds (Gerusalemme), prima di immigrare in Canada, dove ora è professore di sociologia alla Mount Royal University. È autore di ‘A Hermeneutics of Violence’ (UTP, 2019). Ha pubblicato diversi articoli su riviste come Interventions, European Journal of International Relations, Comparative Studies of South Asia, Africa and the Middle East e European Journal of Social Theory. Ha scritto articoli di opinione per Al-Jazeera, The Baffler, Middle East Eye, Mondoweiss, The Breach e Middle East Monitor. Attualmente sta scrivendo un libro sulla sovranità coloniale di insediamento in Palestina/Israele.

** Al-Shabaka, The Palestine Policy Network è un’organizzazione indipendente, apartitica e senza scopo di lucro la cui missione è educare e promuovere il dibattito pubblico sui diritti umani e l’autodeterminazione dei palestinesi nel quadro del diritto internazionale. I rapporti politici di Al-Shabaka possono essere riprodotti con la dovuta attribuzione ad Al-Shabaka, The Palestine Policy Network. Per maggiori informazioni visita www.al-shabaka.org o contattaci via e-mail: contact@al-shabaka.org.

I materiali di Al-Shabaka possono essere fatti circolare con la dovuta attribuzione ad Al-Shabaka: The Palestine Policy Network. Le opinioni dei singoli membri della rete politica di Al-Shabaka non riflettono necessariamente le opinioni dell’organizzazione nel suo insieme.

 

(Traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)