I soccorritori di Gaza tormentati per coloro che non hanno potuto salvare

Una squadra di soccorso in azione a Khan Younis nel tentativo di trovare persone sepolte sotto le macerie: Khan Younis 12 novembre '23. Foto: Atia Mohammed/Flash90)
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Ruwaida Kamal Amer

19 dicembre 2023 – +972 Magazine

Le squadre della protezione civile lavorano 24 ore su 24 con risorse ridottissime per aiutare i palestinesi intrappolati sotto le macerie. Troppo spesso è una battaglia persa.

Non riesco a dormire nemmeno per un minuto. Sono continuamente ossessionato dalle voci e dalle grida delle persone sotto le macerie che ci pregano di tirarle fuori.”

Ecco come Ibrahim Musa, un ventisettenne del campo profughi di Al-Bureij nel centro della Striscia di Gaza, descrive la sua vita dopo l’inizio del bombardamento di Israele. Non solo lotta per sopravvivere giorno dopo giorno come tutti nell’enclave assediata, ma Musa è anche uno degli oltre 14.000 addetti al soccorso inclusi nelle squadre di difesa civile di Gaza, che dopo ogni attacco aereo israeliano guidano i tentativi di salvare le vite di chi è rimasto intrappolato sotto le macerie.

Musa, pur avendo lavorato nella protezione civile di Gaza per cinque anni – anche durante le tante aggressioni israeliane alla Striscia, come in periodi di relativa “calma” in cui il lavoro consiste nel soccorrere le persone in casi di emergenza più comuni – non ha mai assistito a qualcosa di simile a ciò che sta accadendo adesso. Secondo il Ministero della Sanità di Gaza dall’inizio della guerra si contano più di 8.000 persone disperse, di cui la gran maggioranza si pensa sia sepolta sotto le macerie. Molti di loro sono probabilmente morti nonostante tutti gli sforzi degli operatori della difesa civile come Musa, che non sono in grado di competere con il livello di distruzione che si è abbattuto su Gaza nelle ultime settimane.

Non abbiamo le attrezzature per rimuovere le macerie,” spiega Musa. “Se si tratta di un edificio di parecchi piani non c’è molto che possiamo fare. Ci vogliono molte ore e molti tentativi per ottenere qualche progresso.”

Arrivati sulla scena della distruzione dopo un attacco aereo israeliano, gli operatori della protezione civile devono cercare velocemente di capire con che cosa hanno a che fare. “Normalmente non sappiamo chi è intrappolato di sotto o quante persone stiamo cercando, perciò chiamiamo tra le macerie chiedendo se qualcuno è vivo e può dirci quante persone vivevano in questa casa.”, dice Musa. “Gridiamo finché qualcuno ci sente. A volte c’è una risposta immediata, ma spesso sentiamo solo dei gemiti che cerchiamo di seguire per salvare quelle persone.”

Una situazione che i soccorritori di Gaza affrontano regolarmente è dover cercare di calmare i bambini che sono intrappolati sotto le rovine della loro casa. “I bambini chiamano da sotto le macerie chiedendo dei membri della loro famiglia”, continua Musa. “A volte mentiamo e diciamo che stanno tutti bene in modo che non rimangano scioccati. Altre volte chiamano per dirci che un membro della famiglia che viveva vicino a loro è diventato un martire.”

Musa spesso ha l’impressione che lui e i suoi colleghi stiano combattendo una battaglia persa. “Non si tratta di una o due case bombardate, ma di interi complessi residenziali”, spiega. “L’intera area è completamente distrutta e diventa un unico cumulo di macerie. Dobbiamo scavare con le mani per tirar fuori le persone ferite ancora vive. Cerchiamo di stare attenti perché il peso delle macerie sui loro corpi potrebbe far sì che noi gli facciamo del male, persino fargli perdere degli arti nel tentativo di salvarli.”

La mia giornata è iniziata il 7 ottobre e non è ancora finita’

Ahmed Abu Khudair di Deir al-Balah, nel centro di Gaza, è un altro membro della protezione civile. Come Musa descrive questa guerra come “più aggressiva e violenta” di tutti i precedenti attacchi di Israele contro la Striscia; di fatto ritiene che l’esercito israeliano stia cercando attivamente di infliggere il maggior danno possibile alla popolazione civile di Gaza.

Gli stessi operatori della protezione civile non sono immuni dagli attacchi israeliani: almeno 32 di loro sono stati uccisi dall’inizio della guerra, compresi sette membri della squadra di Abu Khudair. Lui pensa che non sia stato per sbaglio.

Le forze di occupazione prendono di mira deliberatamente le squadre di difesa civile e delle ambulanze”, dice Abu Khudair. “Io sono stato ferito mentre lavoravo in una casa che era stata bombardata nel sud di Gaza. Abbiamo recuperato i corpi di tre martiri e salvato parecchi feriti, ma poi la casa è stata nuovamente bombardata. Quando sono salito sul tetto di una delle case vicine per cercare le persone siamo stati esposti ad altri due missili.”

Musa concorda con l’affermazione di Abu Khudair: “A Gaza chiunque è un bersaglio”.

Nonostante lavorino regolarmente 24 ore di seguito, gli operatori della protezione civile devono accettare il fatto che non sono in grado di salvare tutte le persone sepolte dalle macerie. “Non ci sono attrezzature”, dice Abu Khudair, spiegando che mancano i bulldozer per rimuovere grandi blocchi di cemento e anche dispositivi elettronici che possano individuare la posizione delle vittime. “Lavoriamo solo con la nostra forza fisica.”

Una situazione particolarmente devastante che è rimasta impressa nella memoria di Abu Khudair è stata in seguito ad un bombardamento notturno vicino ad un distributore di benzina nella cittadina di Al-Qarara, nel sud di Gaza. “Sono arrivato sul posto e in un primo momento non ho potuto trovare alcuna vittima”, ricorda. “Poi ho sentito dei lamenti e mi sono diretto verso quei suoni. Ho scavato tra le macerie e ho trovato due gambe incastrate, che ho liberato – appartenevano a una ragazza di 12 anni di nome Aisha.” La ragazzina gli ha detto che otto membri della sua famiglia erano intrappolati sotto le macerie, oltre ad altre famiglie, compresi 9 bambini molto piccoli.

Nonostante tutti i tentativi possibili di Abu Khudair e dei suoi colleghi, semplicemente non avevano i mezzi per salvarli. Descrive questo come “uno dei momenti più duri che ho vissuto – lasciare un luogo sapendo che ci sono persone vive sotto le macerie, ma non puoi fare niente per loro e alcuni moriranno di sicuro.

Oltre a cercare di salvare ogni giorno persone che non conoscono, i soccorritori hanno anche le proprie famiglie di cui preoccuparsi. Musa è stato lontano dalla sua casa e dalla sua famiglia lavorando 24 ore su 24 fin dal primo giorno di guerra, vivendo insieme ai suoi colleghi nell’ospedale Martiri di Al-Aqsa.

Nei periodi di guerra chi di noi sta nelle squadre di soccorso non sa mai quando le nostre giornate inizieranno o finiranno”, spiega. “Quanto a me, la mia giornata è iniziata il 7 ottobre e non è ancora finita.”

Essere lontano dalla propria famiglia significa che Musa non sa come stanno i suoi famigliari e riceve solo degli aggiornamenti per telefono. “Alcuni giorni trovano rifugio in una delle scuole a causa del pesante bombardamento del nostro quartiere nel campo [profughi] di Al-Bureij, altri giorni ritornano a casa”, dice. “Manco ai miei figli quanto loro mancano a me.”

Musa ha incontrato sua moglie e i suoi due figli solo una volta in più di due mesi – in seguito ad un attacco aereo vicino alla loro casa. “Mi hanno detto che c’era stato un bombardamento di una casa nel campo”, ricorda Musa. “Ero molto preoccupato per la mia famiglia. Con il veicolo della difesa civile siamo arrivati sempre più vicino alla strada in cui si trova la nostra casa, finché mi sono trovato alla porta del nostro edificio.”

Il bombardamento, prosegue Musa, aveva preso di mira la casa di suo zio, che è nello stesso edificio della sua famiglia. “Ho sentito tutti gridare e piangere. Mi sono messo a cercare mio zio e i suoi figli e chiunque si trovasse nella casa. Ho saputo che mio fratello di 19 anni, Abdul Rahman, era da loro, ma non ne ho trovato traccia. Il suo corpo era stato fatto a pezzi e mia sorella lo ha riconosciuto solo dai pantaloni che indossava; glieli aveva portati in regalo dall’Egitto solo pochi giorni prima della guerra.”

Poi ho visto mia moglie e i miei bambini, per pochi minuti,” prosegue Musa. “Erano salvi, ma terrorizzati.”

Nonostante gli orrori che affrontano, Musa e Abu Khudair trovano un senso profondo nel loro lavoro. “Sentiamo che questi sono nostri figli, nostri fratelli, nostri familiari che stiamo salvando”, spiega Musa. “Proviamo un senso di vittoria quando riusciamo a tirar fuori dalle macerie qualcuno in sicurezza. Ma quando sentiamo le grida di aiuto dei bambini sotto le macerie, nessuno di noi può trattenere le lacrime.”

Ê il nostro lavoro”, dice Abu Khudair. “Anche se Israele non rispetta il diritto internazionale, la legge è dalla nostra parte e siamo protetti dalla volontà di Dio.”

Ruwaida Kamal Amer è una giornalista indipendente corrispondente da Khan Younis.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)