Maram Humaid
16 Mar 2025 – Aljazeera
Yousef al-Masri ha trascorso diversi terribili giorni costretto a ispezionare stanze per soldati israeliani pesantemente armati.
Gaza City – Il 19 ottobre centinaia di palestinesi sfollati nella scuola Hamad di Beit Lahiya, nel nord di Gaza, hanno sentito ciò di cui tutti nell’enclave palestinese hanno terrore.
“All’alba abbiamo sentito i carri armati [israeliani] circondare la scuola, e i droni sopra di noi hanno iniziato a ordinare a tutti di uscire”, ricorda Amal al-Masri, 30 anni, che quando sono arrivati i carri armati aveva partorito la sua figlia più piccola così di recente da non averle ancora dato un nome.
La gente era già tesa in seguito a bombardamenti ed esplosioni nel corso della notte: gli adulti erano troppo spaventati per dormire, i bambini piangevano per la paura e la confusione.
“Gli edifici intorno a noi venivano bombardati”, dice Amal, che viveva in un’aula scolastica al piano terra con suo marito Yousef, 36 anni, i loro cinque bambini piccoli Tala, Honda, Assad e Omar, tutti di età compresa tra i 4 e gli 11 anni, e il padre di Yousef, Jamil, 62 anni.
Amal stava cullando la neonata mentre Yousef teneva in braccio due dei loro figli più piccoli. Insieme, gli adulti si erano messi a pregare.
Ora era l’alba e una voce maschile registrata che parlava in arabo risuonava attraverso gli altoparlanti di un quadricottero che sorvolava la scuola ordinando a tutti di uscire con i documenti di identità e le mani alzate.
Il quadricottero ha sparato contro gli edifici e ha sganciato bombe sonore, mandando le persone nel panico mentre correvano a raccogliere tutto quello che potevano. Alcune fuggivano a mani vuote.
Yousef, Amal e i bambini sono stati tra i primi a raggiungere il cortile della scuola: Yousef e i quattro bambini tenevano in alto i documenti d’identità e le mani, mentre Amal aveva in braccio il piccolo.
Nel caos Yousef ha perso di vista suo padre.
“I quadricotteri hanno dato degli ordini: ‘Uomini al cancello della scuola, donne e bambini nel cortile’,” ricorda Amal.
La fossa
“Al cancello della scuola c’erano dei soldati con dei carri armati alle spalle mentre altri circondavano il posto”, dice Yousef.
Lui e altri maschi di età superiore ai 14 anni, tra cui alcuni conosciuti provenienti dalle scuole vicine, hanno ricevuto l’ordine dai soldati israeliani di radunarsi al cancello principale in gruppi, mettersi in fila e avvicinarsi a un passaggio per l’ispezione con una telecamera, noto come “al-Halaba” [termine arabo che significa “l’arena” o “il ring”, si riferisce a una modalità di controllo ndt.]
“Tutti erano costretti ad avvicinarsi a un tavolo con sopra una telecamera, uno alla volta”, spiega Yousef, che ritiene che la telecamera utilizzasse la tecnologia di riconoscimento facciale.
Racconta che dopo essere stati registrati dalla telecamera sono stati mandati in una fossa scavata dai bulldozer israeliani.
Nelle ore successive alcuni di loro sono stati rilasciati, altri sono stati mandati in un’altra fossa, mentre altri ancora sono stati sottoposti ad interrogatorio.
Quanto a Yousef, è rimasto per tutto il giorno inginocchiato con le mani dietro la schiena insieme a circa altri 100 uomini in una fossa vicino alla scuola.
“I soldati sparavano, lanciavano bombe sonore, picchiavano alcuni uomini, ne torturavano altri”, afferma. Per tutto il tempo ha temuto per la sua famiglia.
“Ero profondamente preoccupato per mia moglie e i miei figli. Non sapevo nulla di loro”, racconta Yousef. “Mia moglie aveva partorito una settimana prima e non sarebbe stata in grado di camminare con i bambini. Senza nessuno ad aiutarli, avevo paura di quello che sarebbe potuto accadere loro”.
Quando è scesa la sera nella fossa erano rimasti solo circa sette uomini.
Yousef era affamato, stanco e preoccupato, poi un soldato lo ha indicato. “Ha scelto a caso me e altri due uomini; non capivamo perché“, riferisce ad Al Jazeera.
“I soldati ci hanno portato in un appartamento all’interno di un edificio vicino”, dice, aggiungendo di ritenere che si trovassero nelle vicinanze della rotonda Sheikh Zayed.
Agli uomini era proibito parlare tra loro, ma Yousef li aveva riconosciuti: un 58enne e un ventenne rifugiati in scuole vicino a Hamad. Per tutto il tempo, dice, il rumore degli attacchi e dei bombardamenti risuonava intorno a loro.
“Un soldato ci ha detto che li avremmo aiutati in alcune missioni e che dopo saremmo stati rilasciati, ma avevo paura che ci avrebbero uccisi da un momento all’altro”, racconta Yousef.
‘Usato come scudo”
Ad un certo punto della notte Yousef e i suoi compagni di prigionia, esausti, si sono appisolati, per poi essere svegliati di soprassalto dai soldati e spinti fuori dall’appartamento, in strada.
Si è presto reso conto che i soldati camminavano dietro di lui utilizzandolo come scudo.
“La consapevolezza di essere usato come scudo umano è stata terribile”.
Raggiunta una scuola che era stata svuotata dai soldati israeliani, gli è stato ordinato di aprire le porte e di entrare in ogni classe per controllare se ci fossero combattenti nascosti.
I soldati, armati pesantemente, sarebbero entrati solo dopo il suo “via libera”.
La giornata è continuata in questo modo, con l’impiego di Yousef per “ispezionare” una stanza dopo l’altra, dopodiché i soldati davano fuoco agli edifici.
Per tutto il tempo Yousef ha temuto che un quadrirotore gli sparasse o che un cecchino israeliano lo scambiasse per una minaccia e ucciso.
Una volta completate le perquisizioni della giornata è stato riportato all’appartamento con gli altri due uomini e gli è stato dato il secondo pasto della giornata, un pezzo di pane e un po’ d’acqua, proprio come la mattina.
Il quarto giorno Yousef e l’uomo di 58 anni hanno ricevuto l’ordine di recarsi in una scuola vicina e all’ospedale Kamal Adwan per consegnare alle persone lì rifugiate volantini con l’obbligo di evacuazione.
Gli è stata data un’ora di tempo con l’avvertimento che un quadricottero sarebbe volato sopra la loro testa. Mentre consegnavano i volantini alle persone, i quadricotteri intimavano l’evacuazione tramite altoparlanti.
La fuga
Yousef ha deciso che quel giorno avrebbe provato a scappare nascondendosi nel cortile dell’ospedale.
“Avevo paura di tornare indietro”, spiega. “Volevo scappare e scoprire se la mia famiglia era al sicuro, perché avevo sentito i soldati ordinare alle donne e ai bambini di dirigersi a sud, verso Khan Younis”.
Ha deciso di mettersi in fila insieme agli uomini costretti a evacuare, aspettando con ansia mentre il tempo scorreva. I soldati avevano detto loro che sarebbero dovuti stare via solo per un’ora, e ne erano passate parecchie.
La fila di uomini avanzava. “Pregavo che non mi riconoscessero”, dice Yousef.
Poi un soldato seduto in cima a un carro armato gli ha sparato alla gamba sinistra.
“Sono caduto a terra. Gli uomini intorno hanno cercato di aiutarmi ma i soldati hanno urlato loro di lasciarmi”, ricorda Yousef.
“Mi sono aggrappato a uno degli uomini, poi un soldato mi ha detto, rimproverandomi: ‘Dai, alzati, appoggiati a quest’uomo e dirigiti verso via Salah al-Din'”.
Nonostante il dolore mentre se ne andava zoppicando, Yousef non riusciva a credere che il soldato non lo avesse ucciso. “Mi aspettavo di essere ammazzato da un momento all’altro”, afferma.
Un po’ più avanti è stato portato da un’ambulanza palestinese all’ospedale arabo al-Ahli per le cure.
Il ricongiungimento
Amal, che aveva portato i bambini alla New Gaza School di al-Nasr, nella parte occidentale di Gaza City, un giorno ha saputo che Yousef si trovava all’ospedale di al-Ahli.
Si è precipitata lì, rincuorata dopo aver sofferto per giorni a causa di racconti contrastanti, poiché alcune persone dicevano di averlo visto prigioniero, mentre altre di averlo visto altrove.
Era appena arrivata ad al-Nasr, racconta ad Al Jazeera al telefono.
Dice che il giorno in cui la famiglia è stata divisa le donne e i bambini sono stati tenuti nel cortile della scuola per ore.
“I miei figli erano terrorizzati. Molti bambini piangevano. Alcuni chiedevano cibo e acqua. Le madri imploravano i soldati di darglieli ma loro ci urlavano contro e si rifiutavano”.
Nel pomeriggio i soldati israeliani hanno spostato le donne e i bambini verso un posto di blocco munito di una telecamera.
“Ci hanno detto di uscire cinque alla volta”, dice Amal, raccontando come la figlia undicenne Tala sia stata trattenuta e si sia riunita al gruppo dopo di lei.
“Ha iniziato a piangere e a chiamare, ‘Mamma, per favore non lasciarmi’,” racconta Amal con la voce tremante.
Alla fine è stato detto loro di camminare verso sud lungo via Salah al-Din.
“I carri armati che circondavano la scuola erano imponenti. Ho pensato tra me e me: ‘Dio! È arrivata un’intera brigata di carri armati per questi civili indifesi.’
“Il mio corpo era esausto: avevo partorito solo una settimana prima e riuscivo a malapena a portare in braccio la mia bambina, figuriamoci i pochi oggetti che avevamo“.
Mentre i carri armati rombavano intorno a loro sollevavano ondate di polvere e sabbia. “Con tutta quella polvere ho inciampato e la mia bambina è caduta a terra dalle mie braccia”, ricorda Amal, raccontando di come abbia urlato e di come i bambini più grandi abbiano pianto quando la piccola è caduta.
Alla fine ha lasciato tutte le sue cose sulla strada; era troppo stanca per continuare a trasportarle. Doveva condurre i suoi figli in un posto sicuro.
“Mio figlio di quattro anni non smetteva di piangere: ‘Sono stanco, non ce la faccio’. Non avevamo cibo né acqua, niente”.
All’inizio della serata ha raggiunto la New Gaza School con altri sfollati dal nord.
Amal, Yousef e i loro figli sono ora insieme in un’aula della scuola.
Yousef ha trascorso due giorni in ospedale e dopo 13 punti di sutura cammina con cautela zoppicando.
Il padre di Yousef, Jamil, è scomparso dal giorno in cui i soldati sono arrivati alla Hamad School. Ha sentito da alcune persone che sarebbe stato fatto prigioniero, ma lui non lo sa.
La loro neonata, che non aveva ancora un nome quando sono stati costretti a lasciare la parte settentrionale di Gaza, è stata chiamata Sumoud, “fermezza”, un simbolo del loro rifiuto di andarsene.
(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)