Israele ha abbandonato Hadar Goldin molto prima di non riuscire a riportare a casa il suo corpo

Il funerale di Hadar Golding, il cui corpo è stato restituito dopo 11 anni. Foto: Moti Milrod
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Yagil Levy

18 novembre 2025 – Haaretz

Il ritorno dei resti del soldato Hadar Goldin in Israele perché venga sepolto dopo 11 anni a Gaza solleva domande sul fatto che il Paese non sia riuscito a riportare a casa prima il suo corpo. Ma le vere domande dovrebbero concentrarsi di più sulle circostanze che portarono alla morte di Goldin.

Ricordiamo i fatti noti. L’operazione Margine Protettivo, il conflitto del 2014 contro Gaza in cui Goldin venne ucciso, non iniziò intenzionalmente. Fu il risultato di un “deterioramento della sicurezza… che nessuna delle due parti aveva voluto,” come ammise l’esercito all’ufficio del supervisore pubblico. L’esercito venne trascinato nel conflitto e poi in un’operazione di terra la cui necessità, secondo ufficiali di alto grado, era discutibile. Durante questa operazione le vite dei soldati delle Israeli Defence Forces [l’esercito israeliano, ndt.] vennero messe a rischio e alla fine essa diede come risultato la morte di 44 soldati (nell’operazione di terra) [i civili palestinesi uccisi furono circa 1.500, ndt.]. Per Goldin e due suoi compagni della Brigata Givati il rischio fu particolarmente elevato.

L’incarico della brigata era di condurre una perlustrazione dei tunnel a Rafah. Alle 8 del mattino del primo agosto 2014 entrò in vigore un cessate il fuoco. Ciononostante un reparto della Givati venne incaricato di individuare un certo tunnel. “Da quel momento,” tuttavia, “la ricerca di tunnel offensivi che attraversassero la barriera (di confine) doveva essere effettuata in base a una regola d’ingaggio che escludeva l’uso di armi, a meno che non ci fosse un chiaro e immediato pericolo di vita,” scoprì un’indagine della procura generale militare.

Quindi il reparto della Givati venne messo in pericolo mortale essendo stato escluso da un fuoco di copertura e al contrario potendo rispondere solo se avesse incontrato un evidente pericolo. Il comandante di brigata Ofer Winter si oppose alla missione: “Non voglio mandare dentro persone con le mani legate,” affermò, avvertendo che la perlustrazione sarebbe avvenuta in una zona non ancora conquistata in un settore non protetto. “Anche così non potremmo eliminare tutti i tunnel,” affermò, cercando di contrastare l’ossessione di condurre la perlustrazione di un ulteriore tunnel.

Ma Sami Turgeman, il comandante del comando meridionale dell’IDF, ignorò le obiezioni.

Nonostante i vincoli imposti la zona venne perlustrata. Il comandante della compagnia di ricognitori, il maggiore Benaya Sarel, comunicò: “Vedo una persona sospetta. La elimino,” e così facendo violò il cessate il fuoco circa un’ora dopo che era entrato in vigore. Venne preso in un’imboscata da miliziani di Hamas e ucciso insieme al radiofonista Liel Gidoni e ad Hadar Goldin, il cui corpo venne portato via dalla cellula di Hamas.

Winter mise a rischio la vita di un altro soldato, il vice comandante di compagnia Eitan Pund, quando gli consentì di condurre una caccia all’uomo dei terroristi in un tunnel, in violazione delle regole d’ingaggio. Allo stesso tempo invocò la cosiddetta Direttiva Hannibal (intesa a impedire la cattura di soldati anche a rischio di colpirli) alla ricerca di Goldin. Si scatenò un intenso scontro a fuoco ricordato come il Venerdì Nero. Noi ci concentriamo sui nostri morti, ma dobbiamo anche ricordare che, secondo Israele, vennero uccisi circa 70 civili di Gaza. In breve, la morte di soldati e civili si sarebbe potuta evitare.

Può l’esercito guardare negli occhi i familiari e giurare che fosse necessario prendersi quei rischi, che erano noti fin dall’inizio? La nostra sicurezza venne migliorata in seguito alle sanguinose battaglie per trovare e distruggere tunnel in quell’operazione militare? L’incidente rifletteva una specie di mentalità tecnica militare che privilegiava l’infinito lavoro rappresentato dalla distruzione di armi ignorando nel contempo il contesto complessivo in cui l’operazione venne posta in atto e la probabilità che un nuovo tunnel venisse costruito per sostituire quelli distrutti, come di fatto avvenne.

Ma qui risiede il ruolo problematico giocato dal lutto, in particolare rendendo un penoso omaggio a Goldin. È emotivo ma contribuisce anche a cancellare ciò che la commemorazione dei morti si suppone produca, che è politico. Pensando alle circostanze complessive che provocarono la perdita della vita e collegando disastri isolati a una (mancanza di) logica generale. La rabbia è diretta all’abbandono del corpo e non in primo luogo all’avventatezza con cui è stata trattata la vita.

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Nota redazionale: l’articolo si concentra su alcune decisioni di comandanti dell’esercito israeliano che hanno portato alla morte di un soldato, ma svela anche quello che successe il primo agosto 2014 a Rafah. All’epoca l’IDF sostenne che Hamas aveva violato una tregua entrata da poco in vigore sequestrando un soldato. Per questo venne scatenata un’operazione militare in base alla Direttiva Hannibal, che prevede l’uso eccessivo della forza per evitare il rapimento di un ostaggio israeliano anche a costo della vita di quest’ultimo. Quel giorno gli abitanti di Rafah erano tornati nelle strade convinti che fosse in corso una tregua e vennero colpiti indiscriminatamente. Secondo fonti mediche palestinesi nei quattro giorni di bombardamenti ci furono almeno 135 morti, di cui 75 minori. Il comunicato dell’esercito israeliano, ripreso dai principali giornali italiani, sostenne che erano stati i miliziani di Hamas ad aver violato gli accordi. Questo articolo dimostra al contrario che era stata un’operazione israeliana ad aver provocato la reazione palestinese.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)