Il governo della “seconda Nakba” coglie l’attimo

Un cecchino israeliano pronto a entrare in azione. Foto: Yonatan Sindel/Flash90
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Meron Rapaport

2 gennaio 2024, +972Mag

I leader israeliani esprimono esplicitamente l’intenzione di riutilizzare oggi a Gaza i metodi del 1948. Ma ciò che non riuscì a domare i palestinesi allora non ci riuscirà adesso.

All’inizio del dicembre 2022, poco prima che il governo di estrema destra israeliano prestasse giuramento e molto prima degli orrendi eventi del 7 ottobre e del brutale attacco israeliano alla Striscia di Gaza, Ameer Fakhoury e io avevamo pubblicato un articolo su queste pagine intitolato “Perché il governo della ‘seconda Nakba’ vuole rimodellare lo Stato israeliano”.

La nostra preoccupazione che questo governo volesse effettuare un’espulsione sul modello dell’esproprio di massa della Nakba del 1948 era basata sul fatto che a Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir erano stati assegnati ruoli centrali nel governo: Smotrich Ministro delle Finanze e de facto signore della Cisgiordania e Ben Gvir Ministro della Sicurezza Nazionale. Questo duo, avevamo scritto, desidera il caos, credendo che ciò “porterà al momento decisivo in cui i palestinesi si piegheranno o verranno espulsi”.

Un anno dopo i nostri peggiori timori si sono avverati: 1,9 dei 2,2 milioni di abitanti palestinesi della Striscia di Gaza sono attualmente sfollati dalle loro case – che in molti casi sono state completamente distrutte – e alti esponenti del governo israeliano stanno apertamente promuovendo e attivamente lavorando per l’espulsione di massa dall’enclave assediata.

Nei giorni scorsi Smotrich ha esposto in termini chiari la sua visione per la Striscia. “La mia richiesta è che Gaza cessi di essere un focolaio dove 2 milioni di persone crescono nell’odio e aspirano a distruggere lo Stato di Israele”, ha detto in un’intervista alla radio militare la settimana scorsa. “Se a Gaza ci fossero 100.000 o 200.000 arabi e non 2 milioni, tutto il discorso sul giorno dopo [la fine della guerra] sarebbe diverso”.

Il 1° gennaio, in una riunione della sua corrente Otzma Yehudit (Potere ebraico) alla Knesset, Ben Gvir ha proposto di “incoraggiare la migrazione degli abitanti di Gaza” come “soluzione corretta, giusta, morale e umana”, e ha fatto eco all’appello di Smotrich a ristabilire le colonie ebraiche nella Striscia. Ciò avviene dopo che a novembre due parlamentari del partito Likud di Netanyahu hanno pubblicato un articolo sul Wall Street Journal intitolato “L’Occidente dovrebbe accogliere i rifugiati di Gaza”.

E, come +972 e Local Call [edizione in ebraico di +972, ndt.] hanno rivelato integralmente alla fine di ottobre, il Ministero dell’Intelligence israeliano ha raccomandato il trasferimento forzato e permanente dell’intera popolazione palestinese di Gaza nella penisola del Sinai. L’Egitto, da parte sua, continua a sostenere che non consentirà alcun trasferimento di palestinesi nel suo territorio.

Non c’è nulla di nuovo nel fatto che i politici israeliani utilizzino la minaccia della Nakba come strumento politico; Fakhoury e io avevamo infatti pubblicato un altro articolo nel giugno 2022 intitolato “Come le minacce di una seconda Nabka sono diventate normali”, che descriveva dettagliatamente come la destra israeliana sia passata negli ultimi anni dal negare la Nakba al giustificarla e a usarla come rinnovata minaccia contro i palestinesi. Ora, però, questa minaccia si è trasformata da strategia retorica a realtà devastante.

Un’ “arma strategica” – e un fine

L’obiettivo dichiarato dell’esercito israeliano a Gaza è quello di mettere fuori combattimento Hamas e altri gruppi armati palestinesi. Tuttavia le sue azioni negli ultimi tre mesi attestano una campagna molto più ampia che ricorda le politiche della Nakba: espellere i civili in massa e rendere inabitabili le loro case e i loro quartieri.

Pochi giorni dopo la furia distruttiva guidata da Hamas nel sud di Israele, l’esercito israeliano ha ordinato a 1,1 milioni di palestinesi residenti nella metà settentrionale della Striscia di abbandonare le loro case e spostarsi a sud di Wadi Gaza fino a nuovo ordine – continuando a bombardare le aree in cui aveva detto loro di fuggire. Più recentemente, l’esercito ha emanato ulteriori ordini di espulsione ai palestinesi in varie parti del sud di Gaza, spingendone centinaia di migliaia verso la costa e il confine di Gaza con l’Egitto.

Il caporedattore del quotidiano progressista israeliano Haaretz Aluf Benn ha sostenuto che l’espulsione è “la principale mossa strategica di Israele” nella guerra, e che la possibilità per l’esercito di uccidere i civili che tentano di tornare a casa sarà la chiave per la vittoria di Israele. L’analista del quotidiano Middle Eastern Affairs Zvi Bar’el ha descritto in modo analogo la crisi umanitaria che Israele ha provocato a Gaza come “un’arma strategica” progettata “per imprimere nella coscienza palestinese la punizione apocalittica che dovrà affrontare chiunque d’ora in poi osi sfidare Israele”.

Israele non solo considera lo sfollamento forzato uno strumento, sembra anche considerarlo un fine in sé. Testimonianze e documenti che sono trapelati da Gaza durante questo periodo, oltre all’analisi delle immagini satellitari, suggeriscono che l’esercito israeliano stia facendo in modo che molte delle persone sfollate non abbiano una casa in cui tornare.

L’esercito ha raso al suolo interi quartieri, danneggiando o distruggendo oltre il 70% delle case di Gaza. Ha distrutto biblioteche e archivi, edifici comunali, università, scuole, siti archeologici, moschee e chiese. Anche se Israele alla fine non imporrà un’espulsione di massa dei palestinesi fuori dalla Striscia, resterà ben poco della loro vita prima di questa guerra.

Israele non ha alcun interesse che Gaza venga ricostruita”, ha detto a novembre Giora Eiland, ex capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale israeliano, all’emittente nazionale israeliana Kan. “Una situazione di caos continuo a Gaza, simile a quella della Somalia, è qualcosa con cui Israele può convivere? Sì, Israele può conviverci. Chi vuole cambiare la situazione dovrà farlo alle nostre condizioni”.

Al di là della depravazione morale dell’idea stessa di deportare o uccidere 2 milioni di persone, il fiorire del “partito della Nakba” nella politica israeliana testimonia la povertà ideologica della società israeliana. Settantacinque anni dopo la fondazione dello Stato, l’unica cosa che la politica ebraico-israeliana ha da offrire è una seconda Nakba.

Ritornare alla strategia militare e politica fondativa del 1948, a quello stesso metodo di deportazione di massa di un intero popolo, dimostra l’instabilità e la debolezza degli altri metodi ipotizzati da Israele per affrontare la “questione palestinese” nel corso degli anni: annessione, mantenimento dello status quo, disimpegno unilaterale, “riduzione del conflitto” e persino proposte di soluzione a due Stati incentrate principalmente sugli interessi ebraici.

Inoltre, l’importanza data all’“opzione Nakba” nel discorso politico ebraico-israeliano contemporaneo testimonia ulteriormente l’eccezionalità di Israele nel mondo di oggi. Dopo la seconda guerra mondiale, e nonostante alcuni casi contrari, il consenso internazionale ha ampiamente ritenuto che i trasferimenti forzati di popolazione e le espulsioni di massa non fossero più legittimi, definendoli addirittura gravi crimini internazionali.

Anche più recentemente, quando queste tattiche sono state messe in atto come in Bosnia o in Ruanda, quasi nessuno Stato ha osato dichiararle la politica ufficiale, e la comunità internazionale – anche se a volte agendo in modo atrocemente tardivo – ha generalmente lavorato per porre fine all’uso di quelle tattiche. Ma espellere i palestinesi dalle loro case e impedirne il ritorno è la più antica politica di Israele, e i suoi leader sono pronti a metterla in atto ancora una volta.

Sull’orlo dell’abisso

Il 7 ottobre è stato un momento di crisi diverso da qualsiasi cosa Israele abbia vissuto nell’ultimo mezzo secolo, o forse addirittura dal 1948. La sicurezza nazionale di Israele è collassata, insieme al senso di sicurezza personale di molti dei suoi cittadini. La ferocia degli attacchi guidati da Hamas ha suscitato un profondo desiderio di vendetta; infatti la maggior parte dell’opinione pubblica ebraica ritiene che affidarsi alle armi sia l’opzione più ragionevole.

Ma vale comunque la pena ricordare: la Nakba del 1948 non ha risolto il conflitto tra ebrei e palestinesi. Settantacinque anni dopo, Israele sta combattendo i nipoti e i pronipoti dei rifugiati palestinesi che fuggirono o furono espulsi a Gaza nel 1948 dalle loro terre all’interno di quello che divenne lo Stato di Israele.

Ora Israele sta trasformando in realtà il sogno di mettere in atto una seconda Nakba, inebriato dal proprio potere e dal vantaggio militare su Hamas, e di fatto scagionato dalla legittimità che dopo il 7 ottobre la comunità internazionale gli ha concesso di “rispondere”. Ma Israele potrebbe tornare sobrio prima del previsto.

Una “pulizia” completa dell’intera Striscia di Gaza sembra essere una missione impossibile: Hamas non si arrenderà, i palestinesi non alzeranno bandiera bianca e la crisi umanitaria porterebbe probabilmente all’intervento arabo, americano ed europeo. La questione del destino degli ostaggi israeliani rimasti a Gaza può anche complicare una linea d’azione inequivocabile, mentre la politica interna israeliana è molto meno coesa di quanto le onnipresenti manifestazioni di patriottismo possano suggerire.

Se Israele alla fine dovesse tornare sobrio, come cambierà rotta? Si può sperare che, a differenza dei casi precedenti, forse questa volta la società israeliana non ritorni semplicemente all’idea assurda di “gestire il conflitto”. Si può sperare che, soprattutto dopo aver vissuto un trauma così terribile, la società israeliana cominci a capire che un futuro sicuro in questa terra può essere garantito solo raggiungendo un qualche accordo con i palestinesi – e che la coercizione, la violenza e la supremazia non risolveranno mai il conflitto.

Ebrei e palestinesi sono oggi più vicini all’abisso di quanto lo siano stati negli ultimi 75 anni, e l’adozione da parte di Israele di una soluzione di Nakba totale potrebbe gettarvici tutti dentro. Ma è anche importante ricordare: quando ci si trova sull’orlo dell’abisso è ancora possibile intravedere l’altra sponda.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)