Come Netanyahu ha strappato la sconfitta dalle fauci della vittoria

Benjamin Netanyahu su cui pende la richiesta di un mandato d'arresto del procuratore della Corte Penale Internazionale per crimini di guerra e contro l'umanità. Foto: Shaul Golan/AFP
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David Hearst

7 ottobre 2024 MiddleEast Eye

La brutale risposta di Netanyahu al 7 ottobre ha vanificato decenni di sforzi con progressivo successo da parte di Israele e degli Stati Uniti per convincere i governi arabi ad abbandonare la causa nazionale palestinese

L’anno scorso nessun commentatore del 7 ottobre – me compreso – poteva prevedere che la guerra sarebbe stata combattuta con tanta ferocia per un anno. Un anno fa nessuno aveva previsto che Israele avrebbe combattuto più a lungo di quanto non abbia fatto quando ha fondato il suo Stato nel 1948. Da allora tutte le guerre combattute da Israele sono state brevi dimostrazioni di forza assoluta.

Non perché non ci abbia provato.

Israele ha bombardato Gaza riportandola all’età della pietra. Oltre il 70 % delle case è stato danneggiato o distrutto. Israele sta ora facendo lo stesso con Tiro, i sobborghi meridionali di Beirut e molte altre parti del Libano meridionale.

Nessuno sta alzando bandiera bianca. Né ci sono segnali significativi di rivolta da parte di una popolazione che ora vive in tende, che ha perso oltre 41.000 persone direttamente a causa dei bombardamenti e tre o quattro volte di più in morti indirette.

Il Lancet [prestigiosa rivista medica inglese, ndt.] ha affermato che il numero effettivo di morti potrebbe superare i 186.000 se si prendono in considerazione altri fattori come le malattie e la mancanza di assistenza sanitaria.

Queste persone stanno morendo di fame. Sono afflitte da malattie. Stanno per affrontare un secondo inverno in tenda. Vengono bombardate ogni giorno. E tuttavia non si sottometteranno. Una simile portata di sofferenza non è mai stata inflitta a nessuna generazione precedente.

Ogni palestinese vivo oggi conosce la posta in gioco. E tuttavia non fuggiranno. La maggior parte preferirebbe morire piuttosto che cedere la propria terra e le proprie case all’occupazione.

Due strategie

Fin dall’inizio di questa guerra ci sono state due strategie molto chiare da parte del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e del leader di Hamas Yahya Sinwar.

Netanyahu aveva dichiarato quattro obiettivi dopo l’attacco di Hamas al sud di Israele: liberare gli ostaggi, annientare tutti i gruppi di resistenza in Palestina e Libano, porre fine al programma nucleare iraniano e indebolire il suo asse di resistenza e dare un nuovo ordine alla regione, con Israele al vertice.

Come è risultato presto chiaro alle famiglie degli ostaggi, così come allo stesso team di negoziazione, Hamas e William Burns direttore della CIA che ha supervisionato i colloqui, Netanyahu non aveva alcuna intenzione di riportare a casa gli ostaggi.

Ha cercato di far credere a Israele che fare pressione su Hamas avrebbe garantito un rilascio più rapido degli ostaggi. Questa era una evidente sciocchezza, poiché la stragrande maggioranza degli ostaggi (ce ne sono solo 101 ancora a Gaza) muore a causa delle bombe e dei missili sganciati da Israele. Tre sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco mentre cercavano di consegnarsi.

Per il governo di destra di Netanyahu le vite degli ostaggi sono secondarie rispetto all’obiettivo di annientare Hamas. Se gli ostaggi fossero tornati, Netanyahu potrebbe ora trovarsi ad affrontare una lunga pena detentiva.

Ma evidentemente non è riuscito a annientare Hamas, e quindi ha velocemente iniziato una nuova guerra con il Libano e Hezbollah. Hamas ha ancora il controllo di Gaza e fino ad ora, nonostante due tentativi di sostituire il governo della Striscia, non è emersa nessun’altra forza credibile a Gaza.

Hamas ricompare ovunque non ci siano truppe israeliane. Nel giro di poche ore appaiono agenti di polizia in borghese a risolvere le controversie.

All’inizio Israele ha cercato di spazzare via la leadership di Hamas. Ha ucciso i primi e i secondi ranghi dei funzionari che gestivano il governo, la maggior parte dei quali in un massacro fuori dall’ospedale al-Shifa. Ma uno spaccato di ciò che sta realmente accadendo a Gaza è stato offerto dall’ultimo annuncio di Israele di aver ucciso tre alti funzionari di Hamas: Rawhi Mushtaha, capo del governo e primo ministro de facto, Sameh al-Siraj, che deteneva il dicastero della Sicurezza nell’ufficio politico di Hamas e Sami Oudeh, comandante della Strategia generale di sicurezza di Hamas.

L’attacco aereo è avvenuto tre mesi fa e nessuno si è accorto della loro assenza. Questo perché Hamas ha continuato a funzionare indipendentemente da quali leader fossero vivi o morti.

In passato, gli assassinii avevano portato a un periodo di incertezza per Hamas. Era accaduto dopo l’uccisione di Abdel Aziz al-Rantisi nel 2004. Ma oggi non funziona e non funziona nemmeno con questa generazione di combattenti.

L’uccisione dei capi è strettamente tattica e di breve durata. Fornisce agli assassini un sollievo temporaneo. La leadership di Hezbollah è stata effettivamente messa a dura prova da una serie di colpi di intelligence, a partire dall’esplosione di migliaia di cercapersone e walkie-talkie trappola. Ma non è stata bloccata come forza combattente, come sta scoprendo l’unità di ricognizione della Brigata Golani.

A lungo termine, i leader vengono sostituiti, le scorte vengono rifornite e le memorie vendicate.

Il ruolo dell’Iran

La colpa di ciò è principalmente di Israele, che ha deliberatamente distrutto le vecchie regole di combattimento. Un presunto obiettivo è ora ritenuto una causa sufficiente per uccidere 90 innocenti attorno a lui, che sia effettivamente presente o no. Un attacco aereo su un bar in Cisgiordania ha spazzato via un’intera famiglia. Diciotto palestinesi sono morti, tra cui due bambini fatti a pezzi. Se lanciare missili contro i bar è inteso come messaggio, sta avendo l’effetto opposto.

I martiri sono i più efficaci nel reclutare militanti.

Lo stesso vale per tutti i gruppi di resistenza, grandi o piccoli, consolidati da tempo o appena nati. Ogni volta che le truppe israeliane lasciano Jenin, Tulkarem o Nablus, pensano di aver ucciso per sempre la sua resistenza. Ogni volta, tornano per affrontare altri combattenti.

Il terrore di Israele genera solo altro terrore. La distruzione di Beirut Ovest nel 1982 ha ispirato l’attacco di Osama bin Laden alle Torri Gemelle nel 2001.

Il terzo obiettivo di Netanyahu è quello di annientare l’Iran come potenza nucleare e regionale, un obiettivo che precede di diversi decenni il 7 ottobre.

Al momento in cui scriviamo si sta aspettando la risposta di Israele al lancio di 180 missili balistici iraniani, alcuni dei quali hanno raggiunto i loro obiettivi.

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha dovuto rapidamente ritrattare le sue affermazioni sul consentire a Israele di attaccare le installazioni petrolifere dell’Iran dopo che gli è stato fatto notare che l’Iran potrebbe chiudere di colpo lo Stretto di Hormuz.

Nessuno è più nervoso degli alleati degli Stati Uniti nel Golfo davanti ad un attacco israeliano all’Iran. L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno già avuto un assaggio di cosa accadrebbe ad Aramco [compagnia petrolifera nazionale saudita, ndt.] e alle esportazioni di petrolio se le installazioni petrolifere dell’Iran venissero attaccate.

Ecco perché gli stati del Golfo hanno rilasciato una dichiarazione in cui dichiarano la loro neutralità, aggiungendo che non avrebbero permesso agli Stati Uniti di utilizzare nessuna delle loro basi aeree per un attacco all’Iran.

Ma la verità storica è che l’Iran non è mai stato centrale per la causa palestinese. È entrato nella mischia solo dopo la rivoluzione nel 1978. Per più di 100 anni i palestinesi hanno combattuto da soli. A volte con l’aiuto degli Stati arabi, prima l’Egitto, poi la Siria, poi l’Iraq, ma per lo più la loro lotta è stata solitaria.

Il programma nucleare dell’Iran è irrilevante per la lotta palestinese. Il fattore più importante è la determinazione del popolo palestinese a vivere nella propria terra.

La vera minaccia per Israele non viene dall’Iran. Viene da un giovane palestinese a Jenin, o da un’ex guardia di sicurezza presidenziale a Hebron, o da un palestinese con cittadinanza israeliana a Nakab.

Tutti loro hanno tratto le proprie conclusioni dalla disperazione dell’occupazione sotto la quale hanno vissuto. Nessuno ha avuto alcun bisogno di un incoraggiamento da Teheran.

Dittature feroci

Il quarto obiettivo di Netanyahu è riordinare la regione con a capo Israele. I funzionari israeliani adorano informare i giornalisti statunitensi sulle parole private di sostegno che Israele sta ricevendo dai leader arabi “sunniti moderati” per il suo programma di dominio regionale. Con “moderati” intendono filo-occidentali. Sono tutte dittature feroci.

Ma, di nuovo, Israele e gli Stati Uniti commettono ripetutamente lo stesso errore confondendo le parole private di sostegno dei ricchi e obbedienti con la volontà dei popoli che affermano di rappresentare.

Fulgido esempio dei ricchi e docili, l’arcipragmatico principe ereditario Mohammed bin Salman è stato ampiamente ed erroneamente citato per sostenere la visione che nei loro cuori i governanti arabi si preoccupassero poco della Palestina.

Il titolo del suo colloquio con Antony Blinken, segretario di Stato degli Stati Uniti, era la citazione: “Mi interessa personalmente la questione palestinese? A me no”.

Ma la citazione completa era questa: “Il 70% della mia popolazione è più giovane di me”, ha spiegato il principe ereditario a Blinken. “La maggior parte di loro non ha mai saputo molto della questione palestinese. E quindi ne sono venuti a conoscenza per la prima volta attraverso questo conflitto. È un problema enorme. Mi interessa personalmente la questione palestinese? A me no, ma alla mia gente sì, quindi devo assicurarmi che questo abbia un esito”. Più il regime è autocratico e più il suo sovrano si sente instabile in tempi di crisi regionale, più deve prestare attenzione alla rabbia popolare per la Palestina. È il suo tallone d’Achille. La tirannia non sopprime o distoglie il sostegno alla Palestina. Lo amplifica.

Di conseguenza, Faisal bin Farhan al-Saud, ministro degli esteri dell’Arabia Saudita, ha annunciato che il regno avrebbe normalizzato le relazioni con Israele solo dopo la creazione di uno Stato palestinese.

Questa affermazione può essere ritrattata, ma almeno per ora l’effetto degli Accordi di Abramo nel creare un’alleanza regionale pro-Israele sta svanendo.

L’obiettivo di Sinwar

Consideriamo ora gli obiettivi strategici di Sinwar il 7 ottobre e vediamo quali, se ce ne sono, siano sopravvissuti al passare del tempo.

Sinwar aveva due obiettivi strategici. Ciò che pensa ci è chiaro da due discorsi che ha fatto l’anno prima dell’attacco di Hamas. In uno, nel dicembre 2022, Sinwar ha affermato che l’occupazione deve essere resa più costosa per Israele.

“Intensificare la resistenza in tutte le sue forme e far pagare all'[autorità di] occupazione il conto per l’occupazione e l’insediamento è l’unico mezzo per la liberazione del nostro popolo e per raggiungere i suoi obiettivi di liberazione e ritorno”, ha affermato.

In un altro discorso, Sinwar ha affermato che i palestinesi dovevano mettere Israele davanti ad una scelta chiara.

“O lo costringiamo ad applicare il diritto internazionale, a rispettare le risoluzioni internazionali, (cioè) ritirarsi dalla Cisgiordania e da Gerusalemme, smantellare gli insediamenti, liberare i prigionieri e (permettere) il ritorno dei rifugiati”, ha affermato.

“O noi, insieme al mondo, lo costringiamo a fare queste cose e a realizzare la creazione di uno Stato palestinese nei territori occupati, compresa Gerusalemme, oppure rendiamo questa occupazione in palese contraddizione con l’intera volontà internazionale, isolandolo così in modo energico e totale, e poniamo fine al suo processo di integrazione nella regione e nel mondo intero”.

Primo, Hamas ha certamente reso l’occupazione più costosa per Israele.

Dall’inizio della guerra, sono stati uccisi 1.664 israeliani, di cui 706 soldati, 17.809 sono rimasti feriti e circa 143.000 persone sono state evacuate dalle loro case, secondo il Jerusalem Post.

Il denaro ha iniziato a fuggire dal paese. Nonostante il ritorno di molti dei 300.000 riservisti ai loro posti di lavoro, l’Economist riferisce: “Tra maggio e luglio i deflussi dalle banche del paese verso istituzioni straniere sono raddoppiati rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, arrivando a 2 miliardi di dollari. I responsabili delle politiche economiche di Israele sono più preoccupati che mai dall’inizio del conflitto”.

La maggiore conseguenza del 7 ottobre

Ma è a livello psicologico che il 7 ottobre ha inferto il colpo più duro.

Il crollo improvviso e completo dell’esercito israeliano un anno fa ha provocato un enorme shock da cui Israele deve ancora riprendersi. Ha messo fondamentalmente in discussione il ruolo principale dello Stato nella difesa dei suoi cittadini.

Ha fatto sentire tutti gli israeliani meno sicuri e questo può spiegare la brutalità della risposta militare, nonostante i profondi dubbi dei responsabili della sicurezza.

Se il video di un combattente di Hamas che telefona a casa a sua madre a Gaza vantandosi di quanti ebrei ha ucciso è inciso nella memoria di David Ignatius [opinionista del Washington Post, ndt.], che dire delle migliaia di post di TikTok che i soldati israeliani hanno postato vantandosi dei loro crimini di guerra? Che effetto hanno sull’editorialista del Washington Post? Lui, come altri, li ha oscurati.

Perché accettare la narrazione secondo cui il 7 ottobre è stato l’Olocausto di Israele significa indossare i paraocchi. Significa escludere e giustificare tutto ciò che Israele ha inflitto a tutti i palestinesi, indipendentemente da famiglia, clan o storia, una barbarie e una disumanità ben più grandi di quanto chiunque avrebbe potuto pensare possibile in uno Stato avanzato, urbano e istruito il 6 ottobre.

Qui, finalmente, arriviamo al maggiore risultato dell’attacco di Hamas.

Il 6 ottobre la causa nazionale palestinese era morta, se non sepolta. Dopo più di 30 anni dagli accordi di Oslo, Gaza era totalmente isolata. Il suo assedio era permanente e a nessuno importava.

Nel settembre 2023 Netanyahu rivendicò la vittoria all’ONU agitando una mappa in cui la Cisgiordania non esisteva.

C’era solo un punto nell’agenda regionale ed era l’imminente normalizzazione dei rapporti dell’Arabia Saudita con Israele. La regione era la più tranquilla da decenni, o almeno così scrisse con sicurezza Jake Sullivan, il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, nella versione originale di un suo saggio per Foreign Affairs.

“Sebbene il Medio Oriente rimanga afflitto da questioni eterne, la regione è più tranquilla di quanto non sia stata da decenni”, scrisse in quella versione originale. Inutile dire che dovette velocemente modificarla.

Alla soglia della vittoria

Sotto la leadership di destra più estrema della sua storia, lo spazio per la pace era stato abbandonato e così anche la separazione. Conquistando la terra e mantenendola, Israele era sull’orlo della vittoria. Dopo il 7 ottobre, il sostegno alla resistenza armata in Cisgiordania è ai massimi storici. L’attacco di Hamas ha rimesso la resistenza armata all’ordine del giorno come modo per realizzare il suo programma di liberazione. Se gli accordi di Oslo fossero riusciti a produrre uno Stato palestinese entro cinque anni dalla firma, un movimento come Hamas non sarebbe esistito. O, se lo fosse, si sarebbe comportato come un gruppo scissionista dell’IRA, incapace di cambiare il corso degli eventi. Oggi, Hamas ha cambiato il corso degli eventi perché il percorso pacifico verso un fattibile Stato palestinese è stato bloccato. Ogni discorso su un processo di pace era un miraggio delle dimensioni della corazzata Potemkin.

Oslo non solo non è riuscita a creare uno Stato palestinese. Ha creato le condizioni affinché lo Stato israeliano si espandesse e prosperasse come mai prima in Cisgiordania e a Gerusalemme.

Questo è stato il fattore più importante nel convincere una nuova generazione di giovani palestinesi a vendere i loro taxi e negozi in cambio di armi.

Quando le Brigate Qassam hanno attaccato il sud di Israele, quei giovani non hanno avuto molto bisogno di essere convinti. Un anno dopo, l’ala armata di Hamas ha raggiunto lo status di eroe in Cisgiordania, Giordania, Iraq e, credo, in gran parte dell’Egitto e del Nord Africa.

Hamas in questo momento spazzerebbe via Fatah se mai fosse consentito che si tenessero elezioni libere come è successo nel 2006.

A livello regionale l’asse della resistenza, che per gran parte del periodo successivo alla Primavera araba era stato un espediente retorico, è diventato un’alleanza militare funzionante.

Hezbollah, che a lungo aveva cercato di prendere le distanze dalle operazioni di Hamas, è ora sotto attacco e in guerra tanto quanto Hamas lo è sempre stato. Milioni di libanesi sono fuggiti dalle loro case e Beirut sta vivendo molto dello stesso terrore a causa dei droni e dei bombardieri israeliani che ha vissuto Gaza City.

La Palestina è tornata al suo legittimo posto, che è quello di occupare un ruolo chiave nel determinare la stabilità della regione.

Ribaltati decenni di sforzi statunitensi e israeliani

La brutale risposta di Israele al 7 ottobre ha invertito decenni di sforzi israeliani e statunitensi per convincere gli arabi che la Palestina non poteva più rappresentare un veto alle relazioni arabo-israeliane.

Oggi quel veto è più forte che mai.

Il cambiamento è stato ancora più evidente a livello globale, sostenuto dall’irrefrenabile desiderio dell’alleanza occidentale di trovare un nemico. Fino a poco tempo fa, erano i sovietici. Poi l’islamismo radicale ha brevemente preso il posto di minaccia globale. 

Ora è l’alleanza dei dittatori di Russia, Cina e Iran, tutti alla ricerca di sfere di interesse, a minare l’ordine mondiale, secondo l’ultimo saggio del segretario di Stato americano Blinken su Foreign Affairs.

Come se gli Stati Uniti non stessero cercando una sfera di interesse globale. Né le affermazioni di Sullivan né quelle di Blinken su Foreign Affairs resistono.

Ma come risultato della sua guerra, Israele ha perso il Sud del mondo e anche gran parte dell’Occidente.

La Palestina è diventata la causa numero uno al mondo per i diritti umani ed è in cima all’agenda degli sforzi per garantire la giustizia internazionale, con processi in corso presso la Corte Penale Internazionale e la Corte Internazionale di Giustizia.

Ha scatenato il più grande movimento di protesta della storia recente nel Regno Unito.

Questione di tempo

Delle due strategie, sembra funzionare quella di Sinwar. Che lui viva o muoia, quell’agenda ha già un suo inarrestabile slancio.

Incoraggiato dalla debolezza di Biden, dal possibile arrivo di Donald Trump che ora afferma che Israele è troppo piccolo, Netanyahu potrebbe ingannarsi e pensare di poter occupare la parte settentrionale di Gaza e il sud del Libano.

L’annessione dell’Area C, che comprende la maggior parte della Cisgiordania, è quasi certamente prossima.

Ma ciò che Netanyahu non sarà in grado di fare a Gaza, in Libano o in Cisgiordania è finire ciò che ha iniziato.

Ciò che ha costretto Ariel Sharon a ritirarsi da Gaza, o Ehud Barak dal Libano, si applicherà alle forze israeliane che Netanyahu tenta di installare a Gaza e in Libano con sempre più vigore. È solo questione di tempo.

Questa guerra ha spogliato Israele della sua immagine sionista liberale, l’immagine del nuovo arrivato che cerca di difendersi in un “vicinato ostile”.

È stata sostituita dall’immagine di un orco regionale, uno Stato genocida senza bussola morale, che usa il terrore per sopravvivere. Un tale Stato non può vivere in pace con i suoi vicini. Schiaccia e domina per sopravvivere.

La guerra di Netanyahu è a breve termine e tattica. La guerra di Sinwar è a lungo termine. Serve a far capire a Israele che se vuole la pace non potrà mai mantenere le terre che ha occupato.

La guerra di Netanyahu dura da un anno e può continuare solo nello stesso modo in cui è iniziata, infliggendo al Libano meridionale la stessa devastazione che ha inflitto a Gaza. Non c’è retromarcia. La guerra di Sinwar è appena iniziata.

Chi vincerà? Dipenderà dal grado di resilienza degli oppressi. Mi sorprenderei se non ci fossero quelli che dicono: “Ne abbiamo abbastanza, vogliamo fermarci”.

Ma passato un anno lo spirito di resistenza è alto e continua a crescere. Se ho ragione, questa lotta è solo all’inizio.

L’equazione del potere in Medio Oriente è effettivamente cambiata, ma non a favore di Israele o dell’America.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye

David Hearst è co-fondatore e caporedattore di Middle East Eye. È commentatore e speaker sulla regione e analista dell’Arabia Saudita. È stato caporedattore agli esteri del Guardian ed è stato corrispondente in Russia, Europa e Belfast. È entrato a far parte del Guardian da The Scotsman, dove era corrispondente per l’istruzione.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)