Nella sua lotta contro il fascismo l’accademia israeliana rimane cieca riguardo a una verità fondamentale

Proteste a new York contro la visita di Netanyahu. Foto: Luke Tress/Flash90
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Anat Matar

26 febbraio 2025 – +972 Magazine

L’attacco del governo contro le regole democratiche non può essere separato dalla sua oppressione dei palestinesi: sono due emisferi dello stesso cervello di destra

Mai prima d’ora le due comunità israeliane con cui divido buona parte del mio tempo, quella universitaria e quella degli attivisti, sono state così estranee tra loro, e ciò nonostante entrambe siano realmente preoccupate del fascismo che stringe la sua presa sulla società israeliana.

Il contrasto tra le risposte delle due comunità al benedetto cessate il fuoco, entrato in vigore il mese scorso, è un’indicazione di questo abisso. Quando noi attivisti di sinistra abbiamo festeggiato il cessate il fuoco ci era chiaro che avrebbe dovuto essere raggiunto molto prima. Dalla seconda settimana dell’ottobre 2023 abbiamo capito che la guerra di Israele contro Gaza era motivata semplicemente da un sentimento di vendetta, mascherato da una facciata retorica di “autodifesa”, e che avrebbe portato solo a un’enorme sofferenza per israeliani e palestinesi; abbiamo anche compreso che avrebbe messo a rischio la vita degli ostaggi israeliani.

D’altra parte la risposta al cessate il fuoco del campo accademico liberal israeliano è stata più emotiva che politica: parlano incessantemente della sofferenza degli ostaggi ma non rivolgono quasi alcuna critica agli obiettivi iniziali e alla condotta della guerra da parte dell’esercito, né fanno un tentativo di capire come siamo arrivati a questo punto. Ciò corrisponde tristemente a come si sono comportati in questi ultimi 16 mesi. Dopo aver guidato il movimento di protesta contro la riforma della giustizia prevista dal governo all’inizio del 2023, dal 7 ottobre l’accademia israeliana si è rapidamente allineata. Da discorsi ed editoriali bellicosi che difendono una “guerra giusta” all’arruolamento in massa degli studenti israeliani nei servizi della riserva, nei primi mesi l’università nel suo complesso ha appoggiato la guerra.

Quello che i miei colleghi accademici non riescono ad afferrare, mentre i miei amici attivisti lo comprendono chiaramente, è che i continui attacchi del governo israeliano alle regole e alle istituzioni democratiche non possono essere disgiunti dall’oppressione genocida del popolo palestinese. Rappresentano i due emisferi dello stesso cervello di destra.

Un netto rifiuto

Quando, pochi giorni dopo la sua formazione alla fine del 2022, la coalizione di governo del primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato la sua riforma della giustizia la comunità accademica progressista si è rapidamente attivata. Docenti e studenti sono usciti a frotte dall’università e sono scesi in piazza sventolando grandi bandiere israeliane blu e bianche e portando cartelli che dicevano “Nessuna università senza democrazia”. Dirigenti universitari, compreso il presidente dell’università di Tel Aviv Ariel Porat, si sono espressi pubblicamente contro quelli che hanno visto come i pericoli che le riforme proposte pongono alla “democrazia israeliana”, unendosi alle proteste e scrivendo decine di lettere aperte e di editoriali.

Per un certo tempo gli orrori del 7 ottobre hanno fatto tacere alcune di queste voci. Altre sono state reclutate dalla macchina propagandistica israeliana e hanno applaudito quella che hanno visto come la guerra giustificata di Israele contro Hamas: come ha sostenuto Porat nel novembre 2023, “la guerra contro Amalek [spietato nemico biblico degli ebrei, ndt.].” Con il tempo, quando è diventata evidente la verità che gli attivisti di sinistra avevano già constatato a metà ottobre, cioè che il governo non era affatto interessato a salvare gli ostaggi che languivano a Gaza, nei circoli accademici ci sono stati sommessi mormorii di dissenso. Ci sono state persino espressioni di preoccupazione riguardo alla “crisi umanitaria” a Gaza e richieste di scongiurarla.

Ma è stato solo con la ripresa dell’attacco del governo contro lo Stato e le istituzioni pubbliche che alcune voci progressiste hanno ripreso a parlare in massa. Il primo gennaio 2024 l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha sentenziato contro uno dei pilastri della riforma giudiziaria. Questa iniziativa ha gradualmente riportato la questione all’attenzione sia del ministero della Giustizia israeliano che dell’opinione pubblica liberal. Per molti mesi il ministro della Giustizia Yariv Levin si è rifiutato di riunire la commissione responsabile dell’elezione del presidente della Corte Suprema, e ora si rifiuta di riconoscerne la designazione.

In un recente articolo per Haaretz Porat ha dettagliato il tipo di “mega-avvenimenti” che, se dovessero accadere, richiederebbero manifestazioni e persino scioperi: la destituzione del procuratore generale, il licenziamento del capo dello Shin Bet [il servizio segreto interno israeliano, ndt.] e la mancata osservanza delle sentenze della Corte Suprema da parte del governo. Le osservazioni di Porat hanno ricevuto un vasto appoggio dalle organizzazioni accademiche, comprese la Bashaar – Comunità Accademica per la Società Israeliana, l’Accademia Israeliana delle Scienze e alcuni sindacati dei docenti.

Questi singoli e gruppi si sono anche fortemente opposti a varie leggi della Knesset che prendono di mira l’università definendole le “leggi bavaglio”: una che taglierebbe i finanziamenti pubblici alle istituzioni accademiche che non licenzino docenti che esprimono “appoggio al terrorismo” e un’altra che richiede alle università di chiudere associazioni di studenti che appoggino “il terrorismo o la lotta armata contro lo Stato di Israele”.

Non c’è alcun dubbio che l’ira e gli appelli urgenti dei dirigenti universitari a resistere a ogni aspetto della riforma giudiziaria siano totalmente giustificati. Tuttavia essi hanno dimostrato un netto rifiuto di riconoscere altri aspetti della stessa agenda, messi in pratica dallo stesso abominevole governo molto prima del 7 ottobre: l’intensificazione dell’occupazione e della spoliazione dei palestinesi; l’espansione delle colonie e degli avamposti dei coloni, spesso attraverso la forza e la violenza; la deliberata e totale cancellazione dell’esistenza politica dei palestinesi.

Da quel terribile giorno il regime della “riforma giudiziaria” ha portato avanti a Gaza una seconda Nakba, molto più brutale della prima. Ha ucciso decine di migliaia di palestinesi mentre ne sfollava e affamava due milioni; ha distrutto il paesaggio fisico dell’intera Striscia, comprese tutte le sue università; ha bloccato l’ingresso di cibo, aiuti umanitari e materiale sanitario. In breve, tutte le componenti che costituiscono un genocidio.

Allo stesso tempo il governo ha stretto la sua presa sulla Cisgiordania occupata espandendo la costruzione di colonie, privando dei mezzi di sostentamento centinaia di migliaia di palestinesi, lanciando nuove massicce operazioni militari nei campi profughi e lasciando liberi i coloni suoi complici di commettere soprusi sistematici.

Lo stesso governo, lo stesso programma, la stessa escalation totalitaria e lo stesso palese disprezzo per la vita umana. Eppure per due anni l’élite ebraica progressista istituzionale ha continuamente negato il rapporto tra questi due emisferi che formano il cervello dell’attuale regime.

Il rapporto tra l’accademia e l’esercito

Il deliberato scollamento spesso è reso possibile dal fatto di separare le azioni di Netanyahu e del suo governo, quello che recentemente l’ex capo di stato maggiore Moshe Ya’alon ha descritto come “il governo di messianici, disertori e del corrotto”, da quelle dell’esercito. Il primo commette orribili crimini di guerra; il secondo, che include soldati e ufficiali innocenti, potrebbe trovarsi ad essere accusato dall’ Aia [la Corte Penale Internazionale, ndt.], senza alcuna colpa.

Ciò in parte deriva dalla stretta collaborazione tra l’accademia e l’esercito israeliani attraverso ricerche in comune, programmi speciali per i soldati, conferenze sulla “sicurezza”; in una collaborazione proseguita dopo il 7 ottobre. Per esempio recentemente l’università di Tel Aviv ha ospitato l’inaugurazione del DefenseTech Summit [Vertice sulla Tecnologia della Difesa], che metteva in mostra le ultime innovazioni letali degli armamenti di Intelligenza Artificiale e droni, tutto mentre le forze armate israeliane distruggevano ogni possibilità di vita nella Striscia di Gaza. Tra i principali oratori c’era il generale (della riserva) Eyal Zamir, direttore generale del ministero della Difesa israeliano e da poco nominato capo di stato maggiore.

Anche se agevolano questi rapporti tra l’università e l’esercito, i dirigenti universitari progressisti israeliani non sempre li promuovono, né, tuttavia, li negano. In una recente intervista la professoressa Milette Shamir, vice-presidentessa dell’università di Tel Aviv per la collaborazione accademica internazionale, è sembrata totalmente restia ad assumersi la responsabilità della complicità della sua università nell’impegno bellico di Israele.

“Mentre è vero che a volte la nostra ricerca favorisce l’impegno militare,” ha ammesso, “non decidiamo noi gli indirizzi di ricerca al posto dei nostri docenti quello su cui devono fare ricerca.” Non ha neppure approfondito se questo impegno per la libertà accademica potrebbe consentire a un docente di condurre scavi archeologici nella Cisgiordania occupata in chiara violazione delle leggi internazionali o sviluppare cineprese da applicare ai cani per aiutare le unità cinofile dell’esercito a condurre attacchi letali contro civili palestinesi a Gaza [cosa realmente accaduta, come dimostrato da un video della stessa università. Vedi https://www.middleeasteye.net/news/tel-aviv-university-developed-dog-cameras-army-unit-linked-gaza-attacks. Ndt.].

Né Shamir ha affrontato la questione dei contratti che l’università firma con l’esercito per programmi accademici specialistici, che consentono a soldati in uniforme e armati di invadere il campus di Tel Aviv. Nella mente della vice-presidentessa, come in quella del presidente e di molti altri importanti membri del corpo docente, è al governo che essi si oppongono e quest’ultimo non ha un reale rapporto con l’esercito, che essi invece sono orgogliosi di servire. È così che Shamir è in grado di affermare: “Sarebbe sbagliato sostenere che collaboriamo con il governo.”

Questa devozione per l’esercito israeliano, guidata dalla fede nella sua intrinseca moralità e di quella della maggioranza dei suoi soldati, è stata ampiamente evidenziata nel più recente editoriale di Porat su Haaretz, pubblicato diversi giorni fa. In esso egli mette in guardia contro la legge della Knesset, approvata la scorsa settimana in lettura preliminare, che vieterebbe ai cittadini, autorità ed enti pubblici israeliani di collaborare in qualunque modo con la Corte Penale Internazionale.

Come ha giustamente evidenziato Porat, questa legge limiterebbe gravemente il lavoro di giornalisti e accademici che potrebbero rischiare il carcere solo per aver pubblicato articoli sui crimini dei soldati israeliani. Ma per Porat una “conseguenza non meno grave” della legge sarebbe la minaccia che rappresenta per i soldati israeliani, che egli ritiene sarebbero a grave rischio di azioni penali all’estero. Di nuovo, vediamo una sincera preoccupazione per la democrazia unita a un totale oblio del fatto che Israele ne è lontana e, con le sue parole, una profonda fiducia nella purezza della “grande maggioranza dei soldati dell’esercito”, anche “se, dio non voglia, sono stati commessi crimini di guerra” da qualcuno.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)