Un obbiettivo alla volta: la logica che ha permesso ai progressisti israeliani di commettere genocidio

Due soldati IDF osservano il panorama di distruzione del Nord della Striscia. Foto: Oren Cohen/Flash90
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Yuval Abraham

20 ottobre 2025 – +972 Magazine

Attribuendo un obbiettivo militare ad ogni uccisione gli israeliani di ogni parte della popolazione hanno potuto partecipare ai massacri senza porsi il problema della moralità delle proprie azioni.

Pochi mesi dopo il 7 ottobre mi sono iscritto ad un corso introduttivo sul genocidio alla Open University di Israele. Il docente ha iniziato la prima lezione dicendoci – eravamo circa 20 studenti ebrei israeliani contattati su Zoom – che alla fine del semestre avremmo capito esattamente che cosa comporta il genocidio e saremmo stati in grado di spiegare perché Israele non sta commettendo un genocidio a Gaza.

In sintesi la sua argomentazione era la seguente: al massimo Israele potrebbe stare distruggendo Gaza, ma le sue azioni sono guidate da obbiettivi militari piuttosto che da un “intenzione di distruggere” un gruppo specifico “in quanto tale”, come specifica la Convenzione sul Genocidio. In assenza di questa intenzione, ha concluso, il termine genocidio non può essere impiegato.

Negli ultimi due anni ho pubblicato molte ricerche che rivelano dettagli sulla politica di fuoco illimitato di Israele a Gaza, parecchie delle quali hanno contribuito a formulare accuse legali di genocidio. Quando il Sudafrica ha presentato la sua denuncia contro Israele alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) nel gennaio 2024, essa si basava in parte sul nostro esposto del novembre 2023 che rivelava la campagna di Israele di uccisioni di massa gestite dall’intelligenza artificiale dirette contro le case delle famiglie di sospetti militanti. Quando un comitato delle Nazioni Unite il mese scorso ha analogamente raggiunto la conclusione che Israele ha commesso un genocidio si è basato, in parte, su un’altra delle nostre ricerche che mostrava che l’80% dei morti a Gaza erano civili, secondo un data base dei servizi di sicurezza interni israeliani.

Eppure pochi delle decine di soldati ed ufficiali con cui ho parlato nel corso di queste ricerche, molti dei quali si sono offerti volontariamente come informatori, si ritenevano partecipi di un genocidio. Quando ufficiali di intelligence e comandanti descrivevano il bombardamento di case civili a Gaza spesso richiamavano la logica del docente dell’università: certo, possiamo aver commesso dei crimini, ma non eravamo assassini poiché ogni azione aveva uno specifico obbiettivo militare.

Per esempio, dopo il 7 ottobre l’esercito ha autorizzato i soldati ad uccidere fino a 20 civili allo scopo di assassinare un sospetto militante di Hamas di basso grado, oppure centinaia di civili se l’obbiettivo erano figure più importanti. La gran maggioranza di queste uccisioni sono avvenute in abitazioni civili dove non aveva luogo alcuna attività militare. Ma per la maggioranza dei soldati con cui ho parlato la mera esistenza di un sospetto obbiettivo militare, anche in casi in cui la fotografia dell’intelligence non era chiara, giustificava virtualmente qualunque numero di morti.

Durante un’altra ricerca un soldato mi ha raccontato come il suo battaglione abbia utilizzato droni a controllo remoto per sparare su civili palestinesi, compresi donne e bambini, mentre cercavano di tornare alle loro case distrutte in una zona occupata dall’esercito israeliano, uccidendo 100 palestinesi disarmati nell’arco di tre mesi. L’obbiettivo, mi ha spiegato, non era ucciderli per il gusto di farlo, ma per svuotare il quartiere e renderlo così più sicuro per i soldati di stanza lì.

Un’altra soldatessa ha raccontato di aver preso parte ad un bombardamento di un intero blocco residenziale, comprendente oltre 10 edifici multipiano e un grattacielo, tutti abitati da famiglie. Sapeva in anticipo che facendo ciò lei e la sua squadra avrebbero probabilmente ucciso circa 300 civili. Ma l’operazione, ha spiegato, si basava su informazioni secondo cui un comandante di Hamas di livello relativamente alto avrebbe potuto essere nascosto da qualche parte sotto uno di quegli edifici. In assenza di informazioni più precise hanno distrutto l’intera zona nella speranza di ucciderlo.

La soldatessa ha ammesso che l’attacco è stato un massacro. Ma a suo parere non era questa l’intenzione: l’obbiettivo era colpire il comandante, che avrebbe potuto anche non essere là.

Questo schema di focalizzazione sull’obbiettivo ha svolto un ruolo cruciale nel consentire agli israeliani comuni di partecipare al genocidio, forse più ancora della sola obbedienza, che normalmente viene considerata la principale motivazione in simili contesti. Considerando ogni azione violenta come un compito a sé stante, dal prendere di mira un militante di Hamas al mettere in sicurezza una zona, i soldati possono evitare di confrontarsi con il proprio ruolo nel massacro di massa di civili.

Inoltre questo atteggiamento mentale diventa più facile da sostenere in un periodo di intelligenza artificiale e di grandi numeri. Queste tecnologie possono raccogliere ed analizzare informazioni su un’intera popolazione quasi istantaneamente, mappando gli edifici e i loro abitanti con presumibile precisione. In tal modo producono un continuo flusso di apparenti giustificazioni militari, creando una parvenza di legalità per una politica di uccisioni di massa. Infatti l’intelligenza artificiale ha permesso a Israele di trasformare un caposaldo del diritto internazionale – l’obbligo di attaccare soltanto obbiettivi militari – in uno strumento che legittima ed accelera proprio quel massacro che si intendeva impedire.

Motivazioni sovrapposte

Mentre un fragile cessate il fuoco mediato dagli USA entra in vigore a Gaza, gli sforzi globali per garantire responsabilità e giustizia continueranno a pieno ritmo. La denuncia del Sudafrica alla CIG continuerà a far rumore, mentre Israele e i suoi sostenitori, compresi i governi occidentali, tenteranno di screditare le accuse di genocidio allo scopo di evitare le conseguenze legali di una simile sentenza. Nel far questo continueranno ad indicare pretesi obbiettivi militari dietro ogni specifico attacco, come fa normalmente l’esercito in risposta ai nostri rapporti.  

L’abitudine degli autori del genocidio di invocare la “sicurezza” come giustificazione della violenza di massa è ben documentata, giustficando le azioni di brutalità in un più ampio schema di autodifesa. Ma qualunque inconsistente scusa venga avanzata per ogni caso, gli attacchi di Israele sono stati condotti innegabilmente con la totale consapevolezza che avrebbero comportato la distruzione di un altro popolo. Il risultato è un numero di morti palestinesi che si ritiene superi i 100.000 e il quasi completo annientamento della Striscia di Gaza.

Tuttavia focalizzarsi solo su come ogni singolo atto di violenza si è sommato fino a creare una complessiva realtà di genocidio significa anche non cogliere il punto. Per molti leader israeliani la morte e la distruzione di massa era l’intento. Dalla deliberata riduzione alla fame di due milioni di persone e l’uccisione di chi cercava gli aiuti, fino al radere al suolo sistematicamente intere città e agire attivamente per l’espulsione di massa, l’eliminazione dei palestinesi di Gaza come obbiettivo in quanto tale era ampiamente chiara.

Soprattutto dopo che Israele ha violato il precedente cessate il fuoco di marzo, qualunque [giustificazione come, n.d.t.] obbiettivo militare si potesse dire esistesse è diventata anche più esile. Ciò che è rimasto è una nuda logica omicida che l’esercito raramente si è preoccupato di giustificare in termini militari.

Questa motivazione è chiara non solo nei fatti ma anche a parole. Come ha detto il primo ministro Benjamin Netanyahu a maggio: “Continuiamo a demolire le case: non hanno dove ritornare. L’unica via di uscita sarà la volontà dei gazawi di emigrare fuori dalla Striscia.” L’ex capo dell’intelligence militare Aharon Haliva è entrato in dettagli anche più specifici: “Per tutto ciò che è accaduto il 7 ottobre, per ognuno di noi che è morto il 7 ottobre, 50 palestinesi devono morire. Non importa adesso se bambini o no. Non sto parlando di vendetta ma sto mandando un messaggio per le future generazioni. Hanno bisogno di una Nakba adesso e poi soffrirne il prezzo.”

Ma essenzialmente le motivazioni legate a un obbiettivo e quelle genocidarie non si escludono a vicenda: anzi, si rafforzano una con l’altra. E questa sovrapposizione allarga la base di coloro che intendono partecipare al massacro.

I soldati apertamente favorevoli al genocidio – e ce n’erano molti – hanno raso al suolo la città di Rafah per fare pulizia etnica dei palestinesi, mentre quelli con una percezione più liberale di sé stessi l’hanno distrutta per “creare una zona cuscinetto di sicurezza”. Haliva considerava il bombardamento di case civili come un atto di vendetta, mentre soldati più turbati da simili giustificazioni potevano raccontarsi che è stato fatto per colpire un bersaglio al loro interno.

La mentalità orientata ad un obbiettivo frammenta la distruzione di un popolo e la inserisce in migliaia di azioni isolate, ognuna giustificata di per sé, nessuna riconosciuta come parte di una più ampia campagna di genocidio. Ciò consente ad alcuni di coloro che la conducono di ignorare l’intento generale, nemmeno se leader come Netanyahu e Haliva lo esplicitano chiaramente. Per parafrasare il vecchio detto: concentrandosi su un singolo albero non vedono la foresta del genocidio.

Il genocidio come disegno morale

Ciò che sta al cuore di queste giustificazioni è la disumanizzazione dei palestinesi. I soldati che hanno massacrato 300 persone per uccidere un solo militante di Hamas mi hanno detto che probabilmente non lo avrebbero fatto se anche un solo bambino ebreo si fosse trovato nell’edificio.

La disumanizzazione va in due direzioni: non solo trasforma le vittime in una minaccia mostruosa, ma fa anche l’opposto, riducendole a polvere, rimpicciolendole fino a farle scomparire. Ecco come un soldato che compie una determinata missione può giustificare l’uccisione di 300 persone. Non le vede come 300 singoli esseri umani, ma solamente come dati di un software che calcola “i danni collaterali”.

Molti ebrei israeliani hanno interpretato gli sviluppi degli ultimi due anni attraverso il linguaggio dell’olocausto. Un amico d’infanzia che è diventato ufficiale di carriera nell’esercito, e che non mi parla più, ha scritto su Facebook che prima del 7 ottobre si è impegnato a seguire le testimonianze pubbliche di sopravvissuti all’olocausto “per traumatizzarsi il più possibile” e in tal modo trovare uno scopo nel suo lavoro. Dopo il massacro di Hamas, che lui considera un’azione degli odierni nazisti, ha scritto che ora può capire a fondo il dolore dei sopravvissuti all’olocausto.

Altri in Israele e nel mondo, me compreso, hanno visto il massacro di Israele di civili, i bambini di Gaza che muoiono di fame, le fosse comuni e i continui sfollamenti forzati ed hanno considerato quegli stessi eventi dalla prospettiva opposta.

E’ impressionante che l’immaginario dell’olocausto possa essere usato sia per giustificare la distruzione di Gaza sia per opporvisi. Questo paradosso parla del potere del genocidio come linguaggio morale prevalente nel nostro tempo e del fatto che i palestinesi devono spesso tradurre la propria sofferenza nei termini di quel linguaggio per essere anche solo ascoltati come vittime.

Tuttavia vedere gli ultimi due anni non solo attraverso il prisma del genocidio ma anche come una seconda Nakba – un duraturo progetto di eliminazione finalizzato a distruggere sia un popolo che lo spazio in cui vive – può avvicinarci a comprendere la natura delle azioni di Israele. Mentre il genocidio è spesso considerato violenza fine a sé stessa, la Nakba rappresenta una violenza che ha uno scopo: la rimozione e la sostituzione di un popolo.

Eppure, in quanto ebreo israeliano posto di fronte agli orrori degli ultimi due anni, non posso non pensare in termini di olocausto. La distruzione di Gaza mi ha permesso di comprendere meglio non solo le storie delle vittime, ma anche quelle degli autori – la maggioranza silenziosa che ha favorito le atrocità con le proprie azioni e con le storie che si racconta per giustificare tutto questo.

Una versione di questo articolo è stata pubblicata per la prima volta in ebraico su Local Call.

Yuval Abraham è un giornalista e regista che vive a Gerusalemme.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)