Nasim Ahmed
12 marzo 2020 – Middle East Monitor
Calunniare a mezzo stampa gli attivisti per i diritti umani che denunciano la brutale realtà dell’occupazione militare, a quanto pare eterna, di Israele in Palestina è stato il modus operandi dei gruppi anti-palestinesi. Questa tattica ha avuto un relativo successo negli ultimi anni perché alcuni governi occidentali, incluso quello britannico, vedono le voci che si levano per la Palestina e l’opposizione alla brutale occupazione israeliana con la lente deformante del “terrorismo palestinese” e non, come ci si aspetterebbe, nell’ambito del legittimo diritto di resistere all’occupazione e di opporsi al razzismo. Inoltre, una discutibile “definizione attuale di antisemitismo” che assimila le critiche a Israele all’ostilità antiebraica ha consentito ai sostenitori di Israele di diffamare chi critichi lo Stato sionista e l’ideologia razzista su cui si fonda.
Anche se effettivamente entrambi i fattori hanno avuto un pesante effetto sulla libertà di parola in Europa e negli Stati Uniti quando si tratti di denunciare i crimini di Israele, ci sono buone ragioni per credere che, nonostante università e istituzioni pubbliche capitolino di fronte alle attuali pressioni e reprimano l’attivismo filo-palestinese, portare in tribunale le campagne di diffamazione costruite dalla rete israeliana di organizzazioni sociali può dare i suoi frutti. Una di queste organizzazioni è UK Lawyers for Israel [Giuristi Britannici per Israele] (UKLfI).
Recentemente Defence for Children International – Palestine [Difesa Internazionale dei Bambini-Palestina] (DCIP), associazione per la difesa e la promozione dei diritti dei bambini che vivono nella Cisgiordania occupata, comprese Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza, ha portato UKLfI in tribunale. DCIP ha vinto presso l’Alta Corte di Giustizia di Londra la causa contro il gruppo di avvocati di UKLfI per aver pubblicato post sul blog del loro sito web e inviato lettere ai sostenitori istituzionali in cui si affermava che DCIP avesse forti “legami” con un “certo gruppo terroristico”. Secondo DCIP, si era trattato di “una campagna di disinformazione politica e mediatica ben organizzata” iniziata nel 2018.
Secondo DCIP, UKLfI fa parte di una rete di gruppi israeliani e dei loro soci a livello mondiale “con il sostegno del Ministero degli Affari Strategici israeliano” che ha condotto “campagne di diffamazione articolate e mirate per delegittimare le organizzazioni umanitarie e per i diritti umani” in Palestina.
Anche se non è chiara l’importanza del ruolo di UKLfI in questa rete, il fine del Ministero degli Affari Strategici di Israele è chiarissimo. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha incaricato personalmente il Ministero di guidare i simpatizzanti filo-israeliani e di creare gruppi anonimi segreti per attaccare gli attivisti filo-palestinesi, spesso con l’aiuto di consulenti politici professionali. Dal varo del ministero, Israele ha stabilito uno stanziamento di guerra di un milione di dollari e un esercito stimato in 15.000 troll per attaccare i gruppi pro-palestinesi.
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Il mese scorso, il DCIP ha affermato di essere stato bersaglio di una feroce campagna di diffamazione da parte dell’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite Danny Danon, del Ministero israeliano per gli Affari Strategici, della ONG Monitor [filo-israeliana di Gerusalemme, analizza l’attività internazionale delle ONG contrarie all’occupazione, ndtr.] e di UKLfI. Tutto è stato fatto, ha affermato DCIP, per impedire al loro gruppo per i diritti umani di fornire prove al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a New York. Brad Parker, consigliere capo del DCIP per la politica e la difesa, ha descritto la campagna in un lungo articolo intitolato: “Dovevo parlare di bambini palestinesi alle Nazioni Unite. Israele me lo ha impedito”.
La vittoria legale del DCIP all’Alta Corte è una delle tante vittorie simili contro la lobby filo-israeliana e anti-palestinese. A febbraio, il britannico Jewish Chronicle [il più antico giornale ebraico al mondo, ndtr.] è stato costretto a scusarsi con un’attivista laburista per averla ingiustamente accusata di presunto “antisemitismo”. Electronic Intifada ha riferito che la proprietà del quotidiano ha ammesso sul suo sito web di aver pubblicato “accuse contro la signora Audrey White” totalmente “false”.
La condanna per diffamazione a quanto pare è giunta quando in dicembre il garante della stampa britannica ha sentenziato che il giornale filo-israeliano di destra, che aveva pubblicato quattro articoli su White, era stato “estremamente fuorviante” e aveva anche posto ostacoli “inaccettabili” alle indagini.
L’anno scorso, il Jewish Chronicle ha presentato le proprie scuse al consiglio di amministrazione di Interpal, organizzazione benefica britannica che fornisce aiuti umanitari e allo sviluppo per i palestinesi in difficoltà, e ha anche accettato di risarcire i danni. Sempre l’anno scorso Associated Newspapers, editore del Daily Mail e di MailOnline, ha pubblicato le sue profonde scuse e pagato 120.000 sterline [circa 132.000 euro] di danni sempre all’amministrazione di Interpal, accollandosi le spese legali delle cause per diffamazione. A febbraio, “ai sensi del paragrafo 15 (2) della Legge sulla Diffamazione del 1996”, UKLfI ha pubblicato sul suo sito web una dichiarazione del Consiglio di Amministrazione di Interpal.
Il Jewish Chronicle è stato uno dei principali attori nella rete israeliana di gruppi anti-palestinesi. Nel 2014 si è scusato e ha pagato ingenti danni a Human Appeal International [organizzazione benefica di sviluppo e soccorso britannica, ndtr.] dopo averlo accusato di essere un ente inserito nella lista nera negli Stati Uniti e aver falsamente affermato che avesse appoggiato gli attentati suicidi. Nello stesso anno il Jewish Chronicle ha dovuto scusarsi con il direttore della Campagna di Solidarietà con la Palestina [organizzazione britannica solidale con il popolo palestinese].
Il pagamento di ingenti somme per danni avrebbe spinto il Jewish Chronicle verso la rovina finanziaria. L’anno scorso è stato riferito che per evitare la chiusura il giornale avrebbe chiesto alle “persone attente alla comunità” un’importante iniezione di denaro. A febbraio, la testata settimanale ha annunciato la propria fusione con Jewish News [quotidiano e sito web ebraici molto noti in Gran Bretagna] “per garantire il futuro finanziario di entrambi i giornali”. Secondo Electronic Intifada, il gruppo che possiede il giornale e il sito web Jewish Chronicle opera con una perdita di oltre 2 milioni di dollari l’anno, mentre il Jewish News avrebbe un passivo di oltre 1,9 milioni di dollari.
Nel frattempo, negli Stati Uniti un negozio di alimentari pro-BDS ha ottenuto un’importante vittoria in tribunale contro i legali di Israele per la sua decisione di boicottare i prodotti israeliani per motivi morali. La vittoria di questo suo sostegno alla campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni [BDS] è stata vissuta come un’imbarazzante sconfitta dai legali di Israele nella decennale causa di denuncia dell’Olympia Food Co-op [cooperativa no profit di Washington che vende alimenti e prodotti naturali, ndtr.]
Come nel caso del DCIP, gli avvocati che agiscono per conto della Olympia Food Co-op hanno affermato che la causa contro il negozio era parte di un ampio e crescente schema di attivismo per reprimere chiunque sostenga i diritti dei palestinesi. Il Centro per i Diritti Costituzionali [organizzazione progressista di patrocinio legale senza scopo di lucro con sede a New York, ndtr.], che ha rappresentato l’Olympia Food Co-op durante i 10 anni di battaglia legale, ha denunciato la campagna di eliminazione delle voci filo-palestinesi come un’ “eccezione palestinese” alla libertà di parola.
Un altro caso che sottolinea come il ricorso alla giustizia possa dare frutti è quello dell’organizzazione britannica riconosciuta dall’ONU che sostiene i profughi palestinesi. Nel 2019 un tribunale britannico ha ordinato a World-Check, una consociata di Reuters, di pagare un risarcimento a Majed Al-Zeer, presidente del Palestinian Return Center (RPC) [Centro per il Ritorno dei Palestinesi, gruppo londinese di patrocinio storico, politico e giuridico dei rifugiati palestinesi, ndtr.], per aver inserito nel suo database mondiale online l’organizzazione fra i gruppi terroristici. Secondo Al-Zeer, il lavoro della RPC nel denunciare le colpe di Israele per la difficile situazione dei rifugiati e la sua responsabilità legale alla luce del diritto internazionale avrebbero messo l’associazione nel mirino del governo israeliano.
Mentre Israele rafforza ulteriormente la sua occupazione e assoggetta sei milioni di persone a un sistema oppressivo, è probabile che l’attacco ai gruppi per i diritti umani da parte della sua rete di organizzazioni della società civile si espanderà. Invece di chiedere la fine della brutale occupazione della Palestina da parte di Israele e della repressione dei diritti dei palestinesi, i gruppi filoisraeliani diventeranno ancora più fanatici e frenetici nel loro tentativo di mettere a tacere ed eliminare il legittimo lavoro per i diritti umani. Dopo la vittoria del DCIP presso l’Alta Corte di Londra, si vede l’opportunità di sfidare la lobby anti-palestinese dove sa che non può vincere: in un tribunale.
Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.
(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)