Porre fine all’apartheid: uno Stato unico non è la soluzione ideale, ma è giusta e possibile

Donne palestinesi superano il varco del muro a Qalandia per andare a pregare nella moschea di Al-Aqsa . Heidi Levine,The National
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Ramzy Baroud

1 dicembre 2020 – Chronique de Palestine

Ancora una volta gli alti diplomatici europei hanno espresso la loro “profonda inquietudine” riguardo all’espansione in corso delle illegali colonie israeliane, evocando nuovamente la massima secondo cui le azioni israeliane “minacciano la praticabilità della soluzione a due Stati”.

Questa posizione è stata comunicata il 19 novembre dall’alto rappresentante dell’UE per gli Affari Esteri Joseph Borrell, nel corso di una video-conferenza con il Ministro degli Affari Esteri dell’Autorità Nazionale Palestinese Riyad al-Maliki.

Tutte le colonie israeliane sono illegali in base al diritto internazionale e dovrebbero essere disconosciute a parole e nei fatti, che rappresentino o no un danno per la defunta soluzione a due Stati.

A parte il fatto che alla “profonda inquietudine” dell’Europa non hanno quasi mai fatto seguito misure concrete, enunciare una posizione morale e legale nel contesto di soluzioni immaginarie è notoriamente privo di senso.

Perciò la domanda che si pone è la seguente: “Perché l’Occidente continua ad utilizzare la soluzione a due Stati come parametro politico per la soluzione dell’occupazione israeliana della Palestina, pur evitando di prendere alcuna iniziativa significativa per garantirne la realizzazione?”

La risposta sta in parte nel fatto che fin dall’inizio la soluzione a due Stati non è mai stata concepita per essere attuata. Come il “processo di pace” ed altre affermazioni pretestuose, il suo scopo era promuovere l’idea, presso palestinesi ed arabi, che ci fosse un obbiettivo che valeva la pena di perseguire, pur essendo irraggiungibile.

Tuttavia anche questo obbiettivo fin dall’inizio era subordinato ad una serie di presupposti irrealistici. Storicamente i palestinesi hanno dovuto rinunciare alla violenza (la resistenza armata contro l’occupazione militare di Israele), dare il loro consenso a diverse risoluzioni dell’ONU (anche se Israele continua a ignorarle), accettare il “diritto” di esistere di Israele in quanto Stato ebraico, e via di seguito. Era anche previsto che questo Stato palestinese ancora da creare fosse demilitarizzato, diviso tra Cisgiordania e Gaza, ma senza la maggior parte della Gerusalemme est occupata.

Pertanto, nonostante gli ammonimenti secondo cui la possibilità di una soluzione a due Stati si stava sgretolando, pochi si sono premurati di comprendere la situazione dal punto di vista palestinese. Secondo un recente sondaggio, stanchi delle illusioni della propria direzione fallimentare, due terzi dei palestinesi adesso concordano che una soluzione a due Stati è attualmente impossibile.

Anche l’affermazione secondo cui una soluzione a due Stati è necessaria, non fosse che come anticipazione di una soluzione permanente di uno Stato unico, è assurda. Questo argomento solleva ancor più ostacoli sulla via della ricerca della libertà e dei diritti dei palestinesi. Se la soluzione a due Stati fosse mai stata realizzabile, lo sarebbe stata quando tutte le parti la difendevano, almeno pubblicamente.

Ormai gli americani non vi sono più legati e gli israeliani l’hanno superata e sono ora impegnati su una strada del tutto nuova, architettando l’annessione illegale e l’occupazione definitiva della Palestina.

La verità incontestabile è che milioni di arabi palestinesi (musulmani e cristiani) e di ebrei israeliani vivono tra il fiume Giordano e il mare. Camminano già sulla stessa terra e bevono la stessa acqua, ma non come persone uguali. Mentre gli ebrei israeliani sono dei privilegiati, i palestinesi sono oppressi, rinchiusi dietro muri e trattati come esseri inferiori.

Per mantenere il più a lungo possibile i privilegi degli ebrei israeliani Israele usa la violenza, utilizza leggi discriminatorie e, con le parole del professor Ilan Pappe, pratica un ‘graduale genocidio’ nei confronti dei palestinesi.

La soluzione di uno Stato unico mira a rimettere in discussione i privilegi degli ebrei israeliani, sostituendo l’attuale regime di apartheid razzista con un sistema politico rappresentativo, democratico ed equo che garantisca i diritti di tutte le popolazioni di ogni confessione, come avviene in tutti i sistemi di governo democratico nel mondo.

Perché questo diventi realtà non c’è bisogno di scorciatoie né di ulteriori illusioni riguardo ai due Stati.

Da molti anni noi colleghiamo la nostra lotta per la libertà dei palestinesi al concetto di giustizia, come negli slogan “nessuna pace senza giustizia”, “giustizia per la Palestina”, e via di seguito. Perciò conviene porre la domanda: la soluzione di uno Stato unico è una soluzione giusta?

La giustizia perfetta non è possibile perché la storia non può essere cancellata. Nessuna soluzione giusta può essere trovata quando generazioni di palestinesi sono già morte come rifugiati privati della loro libertà e senza aver mai potuto far ritorno alle proprie case. D’altra parte permettere all’ingiustizia di perpetuarsi col pretesto che non si può ottenere la giustizia ideale è altrettanto ingiusto.

Per anni molti di noi hanno perorato la causa di uno Stato unico come l’esito più naturale di circostanze storiche tremendamente ingiuste. Tuttavia io – e conosco altri intellettuali palestinesi che hanno fatto come me – ho evitato di farne una questione sotto i riflettori, semplicemente perché sono convinto che ogni iniziativa che riguardi l’avvenire del popolo palestinese debba essere difesa dal popolo palestinese stesso.

Questo è necessario per impedire il tipo di spirito fazioso e, come ha detto Antonio Gramsci, di intellettualismo, che ha forgiato Oslo e tutti i suoi danni.

Ora che l’opinione pubblica in Palestina si sta modificando, principalmente contro la soluzione a due Stati, ma anche, pur gradualmente, a favore di uno Stato unico, si può anche assumere pubblicamente questa posizione. Dovremmo sostenere lo Stato unico e democratico perché anche i palestinesi in Palestina stanno sempre più manifestando tale esigenza legittima e naturale.

Sono convinto che sia solo questione di tempo perché nel contesto del paradigma dello Stato unico uguali diritti divengano la causa comune di tutti i palestinesi.

Preconizzare delle “soluzioni” ormai defunte, come continuano a fare l’Autorità Nazionale Palestinese, l’UE ed altri, è una perdita di tempo e di energie preziose. Aiutare i palestinesi ad ottenere i loro diritti, tra cui quello al ritorno dei rifugiati palestinesi, e rendere Israele responsabile moralmente, politicamente e giuridicamente di non aver rispettato il diritto internazionale dovrebbe ora assorbire tutta l’attenzione.

Vivere come eguali in un solo Stato che abbatta tutti i muri, metta fine a tutti gli assedi e faccia cadere tutte le barriere è uno di quei diritti fondamentali che non dovrebbero essere oggetto di negoziati.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e caporedattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è “Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e difesa nelle prigioni israeliane” (Pluto Press). Baroud ha un dottorato in studi sulla Palestina presso l’università di Exeter ed è ricercatore associato presso il Centro Orfalea di studi mondiali e internazionali, università della California.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)