Israele: migliaia di palestinesi non registrati temono la deportazione e la separazione dalle loro famiglie

La manifestazione delle donne il 21 febbraio 2021 a Ramallah per la richiesta di documenti (MEE/Shatha Hammad)
image_pdfimage_print

Shatha Hammad

2 marzo 2021 – Middle East Eye

Molti vivono come in ‘una doppia prigione’ perché Israele continua a negare loro carte di identità, una politica rafforzata dopo lo scoppio della Seconda Intifada

La paura di essere deportata perseguita costantemente la cinquantenne Anna Morales. Per tutti i 23 anni durante i quali è vissuta in Palestina, questa madre di 6 figli non è riuscita ad ottenere un documento di residenza.  

Anna è un’americana che negli Stati Uniti ha incontrato e sposato Mohammad al-Mashni, ora deceduto.

Nel 1997 la coppia decise di stabilirsi in Palestina, dopo che Anna aveva ricevuto un permesso israeliano di ingresso nel Paese. Mentre all’epoca il marito non aveva una carta di identità palestinese, egli era poi riuscito a ottenerne una nel 2005, così come i loro sei figli.

Invece la domanda di Anna è stata respinta e lei continua a rimanere in Palestina illegalmente, secondo la legge israeliana. 

Anna vive con i sei figli nel villaggio di Surda, vicino a Ramallah nella Cisgiordania occupata. Suo marito è morto nel 2015 e lei è preoccupata per i figli e il loro futuro. 

Non si allontana dal villaggio se non in rarissime occasioni e non esce mai dal governatorato di Ramallah, per paura di attraversare i checkpoint israeliani, dove è necessario essere identificati. 

Vivo con una paura costante. Paura di essere deportata, paura di essere separata dai miei figli, paura di lasciarli da soli,” dice Anna a Middle East Eye

Non solo Anna non può lasciare Ramallah, ma, da quando è arrivata, non ha neanche potuto viaggiare all’estero.

“Mia madre è mancata senza che io potessi vederla per dirle addio. I miei fratelli si sono sposati e hanno avuto figli e in tutti questi anni non ci siamo mai ritrovati,” continua. 

Anna afferma che, anche se è vero che lei potrebbe trasferirsi negli USA con i figli, “noi amiamo la Palestina e le siamo leali e ci rifiutiamo di andarcene senza poter ritornare. Questo è il motivo per cui oggi sono ancora qui e soffro perché non posso ottenere un documento”.

Nel 2020 ha ricevuto una sentenza di deportazione dal tribunale israeliano che fa riferimento alla sua presenza illegale in Palestina per 23 anni. Anna e i suoi avvocati sono riusciti a bloccare temporaneamente l’ordine di deportazione. 

Tutti i palestinesi vivono in una grande prigione costruita da Israele. Quelli di noi che non hanno la carta di identità e quelli che sono a rischio di deportazione vivono in una doppia prigione,” dice. 

Anna è una delle migliaia di persone che vivono in Palestina in attesa di una carta di identità che Israele rifiuta di concedere dopo aver bloccato il processo di “ricongiungimento familiare” e le visite alle famiglie allo scoppio dell’Intifada di al-Aqsa, o Seconda Intifada, nel 2000. 

Prima Israele concedeva documenti di identità basandosi su procedure complesse che richiedevano molti anni, mentre molte domande venivano respinte, con il pretesto della sicurezza. 

L’ultimo lotto di documenti è stato rilasciato nel 2009, estendendo nel 2020 per un altro anno la proibizione del ricongiungimento delle famiglie. 

Noi vogliamo i documenti di identità’

Nonostante i rischi che affrontano per parlare ai media e alzare la loro voce su questo argomento, un gruppo di donne ha cominciato a rompere il silenzio fondando un movimento chiamato “Il Ricongiungimento Familiare È Un Mio Diritto”. Sono state attive sui social e nell’organizzare proteste. 

Davanti all’Autorità Generale Palestinese per gli Affari Civili a Ramallah, l’ente responsabile per far pressione su questo argomento e occuparsene presso le autorità israeliane, le attiviste scandivano: “Vogliamo i documenti di identità, vogliamo i documenti di identità.” L’arrivo delle donne a Ramallah da varie zone e città ha comportato un grande rischio personale. 

Nour Hijaji, una signora di 42 anni di origini tunisine, è andata alla protesta di Ramallah dal suo villaggio di Mas-ha, vicino alla città di Salfit, nel nord della Cisgiordania, per richiedere l’approvazione per la richiesta di ricongiungimento familiare che aveva presentato 13 anni fa. 

Dice a MEE che cinque anni dopo aver presentato la domanda di ricongiungimento famigliare è arrivata in Palestina nel 2013 dopo aver ottenuto un permesso valido solo per un mese.

L’attesa è stata più lunga di quanto mi aspettassi e speravo che la mia presenza in Palestina avrebbe fatto avanzare la pratica e ottenere una risposta, ma non è successo niente,” afferma. 

Durante la sua permanenza in Cisgiordania, Nour è diventata mamma di quattro figli, che hanno tutti documenti palestinesi. Lei si sposta a proprio rischio e non esce da Mas-ha eccetto che per motivi urgenti, il che le rende impossibile portare i figli in altre zone per motivi familiari, per divertimento o per altre ragioni. 

Dice a MEE che la sua esistenza l’ha lasciata priva di molti diritti fondamentali e sussidi, i più importanti dei quali sono l’assistenza sanitaria, guidare un veicolo o andare in altre parti della Palestina o all’estero.

“L’ostacolo maggiore che abbiamo è che non possiamo muoverci. Io non ho visitato [altre città] come Betlemme o Hebron. Questo per me è diventato un sogno.”

“Oggi siamo venuti tutti a Ramallah per consegnare il nostro messaggio alle autorità, in particolare a quelli che trattano con Israele. Noi chiediamo anche perché molti altri problemi non sono risolti, perché il tema del ricongiungimento famigliare non viene sollevato o non se ne parla,” aggiunge.

Separare le famiglie palestinesi  

Il blocco del ricongiungimento familiare attuato da Israele riguarda non solo quelli che si sono trasferiti qui dall’estero con i propri mariti o le proprie mogli, ma anche i discendenti di rifugiati palestinesi, i palestinesi che vivono a Gaza o in Cisgiordania che si sposano fra di loro e i palestinesi di Gerusalemme che sposano individui di una di queste aree.

Il controllo di Israele sul registro della popolazione palestinese significa in effetti che può decidere a chi concedere la cittadinanza in Palestina, chi è consentito sposare e dove la coppia ha il permesso di vivere. 

Secondo gli accordi di Oslo del 1993 la Cisgiordania e la Striscia di Gaza costituiscono una singola entità territoriale, per cui gli abitanti e le famiglie naturalmente dovrebbero avere il diritto di spostarsi tra l’una e l’altra. Invece le restrizioni di Israele comportano che le famiglie divise tra le due aree possono solo farsi visita l’un l’altra in casi “umanitari” eccezionali e non possono spostarsi o cambiare indirizzo in nessuna delle due zone. 

Dati ufficiali sui numeri di casi di ricongiungimento famigliare in sospeso sono scarsi e difficili da ottenere, ma si stimano in decine di migliaia. Secondo una relazione congiunta di gruppi per i diritti umani israeliani fra il 2000 e il 2006, ci sono state almeno 120.000 richieste di ricongiungimento familiare che Israele si è rifiutato di prendere in esame, eccetto per una manciata di casi. 

Imad Qaraqra, addetto alle pubbliche relazioni presso l’Autorità Generale Palestinese per gli Affari Civili, afferma di considerare il tema del ricongiungimento famigliare in cima alla lista delle sue priorità.

“Noi non sappiamo quando Israele potrà dare l’approvazione a questo dossier, ma noi lo chiediamo come uno dei nostri diritti,” dice a MEE

Aggiunge che fra il 2007 e il 2009, prima che Israele interrompesse completamente la procedura, l’ANP riusciva a ottenere l’approvazione di circa 52.000 domande di ricongiungimento familiare.

Helmy al-Araj, direttore del Centro per la Difesa delle Libertà e dei Diritti Civili, dice a MEE che privare le famiglie palestinesi della possibilità di vivere insieme e negare il loro diritto alla cittadinanza e residenza è una forma di punizione collettiva da parte di Israele.

Afferma che questa pratica costituisce un crimine di guerra, viola vari trattati, incluse la Quarta Convenzione di Ginevra, la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali. 

Gli individui privati di un documento di identità, dice, vivono in una condizione di arresti domiciliari e non possono esercitare il loro diritto basilare alla libera circolazione, per timore di essere deportati, il che costituisce una “violazione dei loro diritti civili fondamentali”. 

Al-Araj dice che Israele sta usando questo tema umanitario per fare pressione sull’ANP e ricattarla. Per esempio, dice, dopo che l’anno scorso l’ANP aveva annunciato la sospensione del coordinamento sulla sicurezza con Israele, quest’ultimo aveva rifiutato di registrare decine di neonati, ai quali fu impedito di lasciare il Paese.

Ramzi Abedrabbo, 57 anni è un rifugiato palestinese di Gaza. Ha incontrato la moglie, una palestinese della Cisgiordania, in Giordania, dove viveva. Dopo la nascita dei loro 6 figli in Giordania, nel 2000 la famiglia si è trasferita in Cisgiordania.

Abedrabbo e tre dei loro figli hanno ottenuto i documenti di identità in seguito alla richiesta di ricongiungimento presentata dalla moglie, mentre non si è data risposta alle richieste degli altri tre, mettendoli in pericolo di essere deportati in qualunque momento.

Uno dei figli non registrati, la figlia, è sposata e ha 4 bambini, dice. 

Ramzi, che soffre di emiparesi, ha partecipato alle proteste a Ramallah, dove si è recato dal villaggio di al-Ram, vicino a Gerusalemme. Ha portato tutti i documenti che provano la legalità della sua presenza in Palestina e che dovrebbero valere per i figli.

 Parlando a MEE, Ramzi afferma: “Dove andranno i miei figli se li deportano? La Giordania non li accetterà, né nessun altro Paese perché non hanno nessun altro documento.”

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)