Ami Fields-Meyer
6 marzo 2025 – Haaretz
A quanti nella comunità ebraica americana hanno immediatamente risposto al film che ha vinto l’Oscar con rifiuto e ostilità: ecco perché dovreste ripensarci.
La notte di domenica scorsa, dopo che il film “No Other Land” ha vinto l’Oscar per il miglior documentario, ho postato su Instagram il discorso di accettazione dei co-registi, un palestinese e un israeliano. Il mio post e, a quanto pare, il successo del film alla premiazione dell’Accademy, hanno toccato un nervo sensibile. Una delle risposte di qualcuno del mondo ebraico mi ha definito “sprovveduto” e “con la testa tra le nuvole”, il mio post “dannoso” e ha suggerito che io “prenda un aereo (e) vada a vedere con i miei occhi.”
Dopo anni di impegno su problemi riguardanti Israele, Palestina e questioni più generali di giustizia e riconciliazione so di dovermi aspettare queste risposte quando posto qualcosa sulle reti sociali. Ma ancora mi duole quando leggo parole ostili da persone che conosco. Non è che mi sono alzato domenica mattina e ho deciso di avere un’opinione sul conflitto israelo-palestinese. Ho studiato e parlato dei problemi di giustizia e diseguaglianza in Israele/Palestina da quando ho iniziato a capire, come studente di una scuola superiore ebraica, che quando si tratta di Israele agli ebrei americani viene spesso chiesto di mettere tra parentesi i valori progressisti che la nostra comunità esprime nella politica USA.
Il mio post su Instagram era chiaro: la prima schermata era un link al video completo del discorso pronunciato da Yuval Abraham e Basel Adra, il cui film racconta la distruzione da parte dell’esercito israeliano di Masafer Yatta, un insieme di villaggi palestinesi nelle colline a sud di Hebron, in Cisgiordania, attraverso gli occhi di Adra, un attivista locale. Nella seconda schermata ho citato i loro discorsi sui temi del film, comprese le espulsioni, l’ingiustizia del sistema giudiziario e la violenza quotidiana di vivere sotto occupazione militare.
Ho parlato del modo in cui Israele tratta i palestinesi con i miei compagni al campeggio estivo ebraico, con i compagni di classe all’università, con i miei colleghi funzionari pubblici nei ruoli che ho ricoperto nel governo e con amici durante innumerevoli cene del sabato. Mi sono profondamente impegnato su questi problemi con palestinesi e israeliani, sul terreno in Israele e in Cisgiordania. Ma ci sono certi discorsi che raramente si fanno negli spazi più comunitari o importanti degli ebrei americani, compresa la scottante situazione dell’occupazione documentata nel film. Invece ci basiamo su una prevedibile serie di argomenti superficiali e logori, gli stessi che sono presenti in molte delle risposte ai miei post di domenica notte che ho ricevuto e che sono state ripetute nel mondo ebraico questa settimana.
Con amore e urgenza chiedo ai miei amici che si sentono sdegnati o ostili verso questo importante film e il suo imprevedibile successo: esaminate da dove arrivano queste risposte. Chiedete a voi stessi se avete mai pensato seriamente di sfidare la prospettiva che le ha costruite. Nel vostro prossimo viaggio in Israele, visitate i territori palestinesi, dialogate con le persone i cui familiari sono stati uccisi a Gaza, parlate con i palestinesi della loro vita, delle loro sofferenze, dei loro sogni, del loro racconto della storia. In patria chiedete che questo film sofferto venga mostrato nelle vostre sinagoghe e nelle scuole dei vostri figli. In breve: considerate l’esperienza dei palestinesi con la stessa forza con cui noi insisteremmo che gli altri prendano in considerazione quella ebraica e israeliana.
A volte è come se quelli che seguono i miei scritti e i miei post su internet stessero “segnando i punti”, monitorando quello che condivido per confermare a se stessi “io sto da questa parte”. So di non essere l’unico a pensarla così. Ormai dovremmo saperlo bene. Circa due decenni dopo che la piazza si è spostata in rete non dovremmo più trarre conclusioni su chi uno è o quello a cui crede solo sulla base della sua attività digitale. Eppure non mi obbligheranno a tenere una posizione difensiva nella mia comunità perché mi esprimo chiaramente per la piena dignità di tutte le persone in Israele e Palestina.
Non accetto, né dovreste farlo voi, che il pensiero politico di ciascuno su Israele/Palestina sia un metro di misura adeguato della lealtà al popolo ebraico. Non accetto, né dovreste farlo voi, che la prospettiva di un ebreo americano sulle azioni di Israele, o la volontà di condividere queste opinioni pubblicamente, possa essere la chiave di accesso alla comunità ebraica, alle sue istituzioni o ai suoi spazi comunitari, stabilendo se uno è dentro o è fuori.
Questa affermazione non è solo escludente, è anche antistorica. È un errore liquidare la profonda lotta degli ebrei della diaspora solo come il risultato di una discrepanza tra i valori ebraici particolaristici e quelli liberali e universali della fine del XX secolo e dell’inizio del XXI. Fin da quando nella moderna coscienza ebraica è esistita l’idea di uno Stato militarizzato essa è stata oggetto di profondi disaccordi e dibattiti tra ebrei. Il dissenso dal conformismo è parte del nostro patrimonio.
Ovviamente sono furioso e traumatizzato dal perverso incubo che hanno affrontato gli ostaggi nelle mani di Hamas a Gaza. Come voi, conosco molti dei loro nomi. Ogni nuovo video di un ostaggio in prigionia, che potrebbe essere un mio cugino, un animatore di un mio campo estivo o io stesso, modifica di nuovo la chimica del mio cervello e mi riporta alla versione più primitiva di me. Eppure, come lo sono stato per più di un decennio, sono sbalordito dal fatto che le voci e le narrazioni dei palestinesi, gli esseri umani con cui siamo destinati a condividere la terra, siano così indistintamente messe da parte nella nostra comunità. Non sono più sorpreso, ma non meno addolorato, di fronte al cinico disprezzo di così tanti ebrei, americani e del resto del mondo, per le vite di palestinesi innocenti spazzate via fin dal 7 ottobre, compresi più di 13.320 minorenni. Quanti di noi seduti a tavola il sabato sanno almeno uno dei loro nomi?
Siamo stati condizionati ad accettare che questo circolo vizioso di de-umanizzazione sia l’unica via d’uscita. Non vi parteciperò. Al contrario continuerò a esortare la mia gente, la comunità che mi ha cresciuto, che io amo e non lascerò mai, a uscire fuori dalla dura conchiglia che si è calcificata attorno al nostro cuore collettivo. Persino quando sembra impossibile gli ebrei devono cogliere ogni opportunità di andare a cercare e cogliere le sofferenze e l’umanità dei palestinesi, e ciò per la nostra stessa umanità.
Continuerò a invitare i miei amici a vedere immagini dolorose e a porre domande difficili per avviare nuove idee di riconciliazione e giustizia, per considerare le narrazioni, i nomi e le prospettive palestinesi sottorappresentate nella comunità ebraica americana dominante. Lo farò come una invocazione: ogni post, ogni conversazione, ogni storia potrebbe spingere un amico, un compagno di viaggio, a guardare in un’altra direzione, verso una liberazione collettiva. Come ha detto il regista sul palco: “C’è un’altra soluzione.”
Ami Fields-Meyer, ricercatore esperto alla Harvard Kennedy School, è stato consigliere politico della vice presidente Kamala Harris e ha ricoperto altri ruoli politici nell’amministrazione Biden.
(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)