Mansour Abbas non intende far cadere il governo israeliano, per il suo stesso bene

Mansour Abbas Foto: Olivier Fitoussi/Flash 90
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Sama Salaime

19 aprile 2022 – +972 magazine

Il leader di Ra’am ha congelato l’adesione del suo partito al governo in seguito alla violenta repressione ad Al-Aqsa. Ecco perché andarsene non è un’opzione.

La decisione dello scorso fine settimana del partito Ra’am [Lista Araba Unita, ndtr.] di congelare temporaneamente, ma non cancellare, la sua adesione al governo israeliano a seguito delle rinnovate violenze nel complesso di Al-Aqsa [la moschea al-Aqā fa parte del complesso di edifici religiosi di Gerusalemme noto sia come Monte Majid o al-aram al-Sharīf da parte dei musulmani, Har ha-Bayit dagli ebrei, ndtr.] è tanto singolare quanto necessaria. Non c’è nessun politico palestinese in Israele che vorrebbe trovarsi in questo momento nei panni di Abbas. Il suo partito è stato in grado di resistere per 10 mesi come membro di una coalizione debole e in bilico, e ha subito attacchi feroci sia dall’opposizione che dalle fazioni più a destra del governo, in primo luogo dalla ministra dell’Interno Ayelet Shaked [del partito di estrema destra Yamina, lo stesso del primo ministro Bennett, ndtr.].

Di volta in volta la Lista Araba Unita ha resistito, nonostante le critiche mossele, tra l’altro, durante la vicenda riguardante la legge sulla cittadinanza [il 10 marzo la Knesset ha ripristinato una legge che vieta ai palestinesi sposati con cittadini israelo-palestinesi di ottenere la cittadinanza israeliana e di riunire le loro famiglie in territorio israeliano, ndtr.], i tentativi di approvare un bilancio nazionale nonché le demolizioni di case, gli attacchi ai beduini nel Naqab/Negev, la sua posizione sui diritti LGBTQ. Ha perso il deputato Said al-Harumi, uno dei suoi parlamentari più popolari, morto per un attacco cardiaco, così come la fiducia dei suoi elettori dopo che non è stata in grado di affrontare efficacemente i crimini violenti che continuano ad affliggere la società palestinese in Israele.

Nonostante tutte queste crisi, Ra’am è stata in grado di resistere e di promettere ai suoi elettori – e alla comunità araba in generale – che tutto sarebbe andato bene. Ma poi è arrivato il Ramadan.

È difficile sostenere che i vertici del Movimento islamico siano rimasti sorpresi dalla tempistica del mese santo, durante il quale Israele avrebbe dovuto esibire agli occhi dei palestinesi e del resto del mondo gesti senza precedenti a favore dei fedeli musulmani del Paese, inclusi più permessi per lavoratori da Gaza in Israele e l’allentamento del controllo dei movimenti per coloro che desiderano viaggiare dalla Cisgiordania a Gerusalemme occupate.

Abbas e soci non potevano prevedere i quattro attacchi omicidi contro cittadini israeliani che hanno avuto luogo lo scorso mese. La Lista Unita [coalizione di partiti arabo-israeliani laici, all’opposizione, ndtr.] ha condannato duramente le uccisioni. Mentre l’ondata di attacchi si è placata, almeno per ora, le operazioni militari israeliane nelle città della Cisgiordania sono diventate di giorno in giorno più letali. Tredici palestinesi sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco, tra cui un ragazzo di 17 anni e una vedova di 47 anni madre di sei figli.

Ra’am ha fatto parte di un governo che ha commesso crimini di guerra contro i palestinesi, e il suo imbarazzo è cresciuto sempre più davanti a ogni immagine di minorenni arrestati o di shaheed [“testimone” in arabo, spesso tradotta con il termine “martire”, ndtr.] sepolti a Hebron o a Betlemme. Ma durante questo Ramadan tutti gli occhi sono puntati [su quello che accade, ndtr.] alla moschea di Al-Aqsa, dalle percosse subite da giovani palestinesi e giornalisti da parte degli agenti presso la Porta di Damasco agli attacchi sfrontati e quotidiani presso il complesso di Al-Aqsa durante il fine settimana.

Impossibile nascondere alla vista queste immagini: donne picchiate da agenti di polizia armati di manganelli, anziani spinti e feriti dalle forze di sicurezza, soldati armati fino ai denti che fanno irruzione nella moschea e sparano gas lacrimogeni, attaccano tutto ciò che si muove e arrestano centinaia di persone. Come potrebbe lo stesso movimento che fa l’elemosina ai poveri di Gerusalemme e organizza campi estivi gratuiti per bambini nella moschea fornire il suo sostegno a un governo che un giorno dà ordine di irrompere nella moschea con il pugno di ferro e il giorno dopo di fornire protezione a decine di coloni e attivisti di estrema destra saliti a pregare sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif?

Nel frattempo i social media sono pieni di video satirici su Abbas che vende Al-Aqsa ai coloni. Per molti Abbas e Ra’am avranno le mani sporche del sangue di ogni palestinese che morirà a Gerusalemme.

La critica interna al movimento islamico, che ha proclamato Al-Aqsa una “linea rossa” che Israele non può oltrepassare, non ha fatto che crescere nell’ultimo mese, mettendo Ra’am in un angolo. Non può più rimanere in silenzio quando il presidente della Lista Unita Ayman Odeh, un socialista laico dichiarato, si piazza sui gradini della Porta di Damasco per difendere la santità di Gerusalemme, il presidente di Balad [partito israeliano che si oppone all’idea di uno Stato unicamente ebraico e sostiene la natura bi-nazionale di Israele, ndtr.] Sami Abu Shehadeh corre di studio in studio per spiegare le conseguenze dell’occupazione sui palestinesi, e come tutti questi vari episodi di violenza siano il risultato di questa occupazione, e il presidente di Ta’al [“Movimento arabo per il rinnovamento”, uno dei componenti della Lista Unita, ndtr.] Ahmad Tibi in diretta dal Russian Compound [quartiere di Gerusalemme in cui sorge la Cattedrale russo-ortodossa della Santissima Trinità, ndtr.] annuncia che starà al fianco dei detenuti palestinesi fino alla fine. Alla luce di tutto ciò, cosa restava da fare ad Abbas e al suo partito?

False promesse e sogni irrealizzabili

D’altra parte è chiaro che Abbas non vuole essere l’unico responsabile della caduta del primo governo israeliano che ha accolto cittadini palestinesi nelle sue fila, e non è certo interessato a essere accusato — sia dagli ebrei israeliani che dai palestinesi — del ritorno al potere di Netanyahu.

È proprio per questo che congelare l’adesione del suo partito è il trucco funambolico di cui andava alla ricerca: è un’esibizione di protesta contro un governo che sostiene, priva di qualsiasi minaccia reale di farlo cadere.

Non è ancora chiaro quanto questo patetico tentativo di protesta sia stato coordinato con il primo ministro Naftali Bennett – che ha consentito alla polizia di scatenarsi ad Al-Aqsa – e con colui che dovrebbe succedergli [in base ad un accordo tra i partiti della coalizione di governo, ndtr.], Yair Lapid.

Dal canto loro Bennett e Lapid sanno che devono aiutare il loro partner assediato, almeno fino a dopo il Ramadan. È probabile che nei prossimi giorni vedremo una serie di gesti umanitari rivolti ai palestinesi – in particolare in vista dell’Eid al-Fitr, che segna la fine della ricorrenza – che consentirà loro non solo di pregare a Gerusalemme, ma anche di bagnarsi i piedi nel Mediterraneo. La presenza della polizia nella Città Vecchia probabilmente diminuirà in modo significativo e le ultime preghiere del mese potrebbero trascorrere senza nuove aggressioni verso i palestinesi.

Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti: questo governo non cadrà a causa dei suoi parlamentari arabi. L’esperienza recente ci insegna che i membri del partito di Bennett rappresentano la più grande minaccia all’esistenza della coalizione. Non sarà Ra’am a rovesciarlo, non perché sia soddisfatta del governo, ma perché il futuro del partito dipende da ciò che l’elettore arabo avrà deciso, alla fine, in merito alla bontà della decisione di entrare nel governo Bennett-Lapid. La scommessa fatta da Abbas deve dare i suoi frutti il ​​prima possibile, finché è ancora al governo, altrimenti il ​​suo partito non avrà diritto di esistere.

Sarà accusato, ancora una volta, di aver smantellato la Lista Unita [di cui faceva parte prima delle ultime elezioni, ndtr.] in nome di false promesse e sogni irrealizzabili. Sarà un suicidio politico e la prova determinante che il nuovo e pragmatico corso del movimento islamico è destinato a fallire, e che Mansour Abbas non è ancora pronto ad ammetterlo.

Samah Salaime è un’attivista e giornalista femminista palestinese.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)